“Non so che cosa farò, dove andrò a vivere o se andrò da qualche parte. Ma so che andrò a Parigi, nel mio appartamento. Ho un appartamento. Un posto tutto mio. Si dice così, un posto mio. Ma non sento di avere un posto mio, o un posto in generale. Un posto dove sentirmi a casa. “
Chantal Akerman, Mia madre ride
Chantal Akerman non ha mai smesso di cercarlo, un posto dove sentirsi a casa. Lo cerca dal 1974, quando in otto giorni gira Je, tu, il, elle a soli 24 anni, un film “intorno al calore, sul Tu che viene trovato, un Tu senza il quale non ci sarebbero lettere, viaggi, baci, un Tu che lega Je a Il, a Elle, a Noi” (come affermato da M. Genuite e P. Azoury).
“E così me ne sono andata. Una piccola stanza bianca al piano terra, stretta come un corridoio, dove resto immobile, attenta, distesa sul materasso” – è la voce fuori campo della regista a riempire la primissima immagine di Je, tu, il, elle, quella di lei seduta di spalle su una sedia, con accanto un letto sfatto, qualche coperta, due cuscini, un piccolo mobile e un tappeto.
Dipinge i mobili di blu, poi di verde, li sposta, si accovaccia contro il muro in un angolo buio; i giorni passano e, quando il giorno finisce, il lungo piano sequenza – con cui è realizzato il primo tempo del lungometraggio – si interrompe per lasciare spazio a una dilatata dissolvenza a nero, che getta l’intera stanza nel buio.
Je, tu, il, elle, un autoritratto in frammenti
Scrive molte lettere, dispone i fogli uno accanto all’altro sul pavimento, vuota la stanza le sembra più grande, non esce mai, mangia lo zucchero da un cartoccio, si ascolta respirare perché il suo respiro è l’unico rumore o forse no, forse ci sono anche i passi degli altri che a un certo punto smette di ascoltare “perché sono troppi e fanno troppo rumore” – come dice la voce fuori campo, diario di se stessa.
Trascorre almeno 28 giorni nella stanza, da sola, mentre aspetta che accada qualcosa, che smetta di nevicare. Molti anni dopo scriverà che non riesce ad “aspettare la primavera”, perché è “immersa nell’inverno con le sue nuvole scure e pesanti che non sembrano mai andare via”, con l’impressione che “stia per finire, ma non finisce” – ma nel 1974, quando filma Je, tu, il, elle, Chantal Akerman non può saperlo: ha solo 24 anni, non sta perdendo la madre, non sta per morire. Sta solo aspettando.
Nei lunghi piani sequenza Akerman è spesso di spalle, solo talvolta si lascia guardare dalla macchina da presa e rivolge lo sguardo in macchina; al centro della stanza c’è sempre e solo lei, come unica creatura viva, come unico elemento immobile nel bianco assordante delle pareti. È lei a muoversi, è lei a far muovere la stanza.
Non è complesso, dunque, immaginare come Chantal Akerman abbia filmato il primo tempo di Je, tu, il, elle: ponendo la macchina da presa davanti a sé e lasciandola immobile, fissa, per tracciare un autoritratto in frammenti di se stessa o di una parte di se stessa o forse solo di una solitudine, di un ritiro dal mondo.
La fenomenologia dell’attesa in Je, tu, il, elle e in Un homme qui dort
I primi 30 minuti di Je, tu, il, elle ricordano l’inizio di un film girato nello stesso anno, Un homme qui dort di Bernard Queysanne, tratto dall’omonimo romanzo di Georges Perec, pubblicato nel 1967. È la storia di uno studente che la mattina di un esame decide di spegnere la sveglia e continuare a dormire, che decide di essere o diventare indifferente e trascorre le giornate vagando per Parigi, leggendo Le monde, ritirandosi dal mondo e imprigionandosi in una stanza – come la protagonista di Je, tu, il, elle.
Anche nel film di Queysanne le immagini sono accompagnate da una voce fuori campo, che tuttavia non è in prima persona – come in Chantal Akerman – ma in seconda: “hai 25 anni e 29 denti, 3 camicie e 8 calzini, qualche libro che non leggi più e qualche disco che non ascolti più. Sei seduto e vuoi soltanto aspettare”. Anche il protagonista di Un homme qui dort aspetta, come Chantal, ma cosa? Forse non importa saperlo, forse l’unico momento in cui Je, tu, il, elle va in un’altra direzione è quando la protagonista, interpretata da Akerman, apre la porta della stanza ed esce, e ad accoglierla nella notte ci sono le strade della città.
Il cinema di Chantal Akerman è un cinema femminista?
C’è chi ha definito il cinema di Chantal Akerman un cinema femminista, poiché si tratta di un cinema che nasce da uno spavento, che rifiuta lo sguardo maschile come sguardo del racconto; Akerman non si lascia guardare da occhi maschili, non si lascia filmare da una macchina da presa sorretta dalle mani di un uomo, diventa lei stessa lo sguardo di sé stessa, la macchina da presa di sé stessa.
Probabilmente il suo mondo è molto lontano da quello di Pianeta Venere (1972) di Elda Tattoli o da quello di Io sono mia (1978) di Sofia Scandurra, perché se il primo segue il modello del cinema politico d’avanguardia e il secondo percorre la strada della commedia di costume ottenendo scarsa considerazione anche nello stesso ambiente femminista, al contrario il cinema di Chantal Akerman abbraccia generi diversi – dal lungometraggio, al documentario, alla commedia musicale in Golden Eighties (1986) -, abbandona il racconto a vantaggio delle immagini e del silenzio, posa lo sguardo sull’interiorità sola di una stanza vuota e di un’esistenza vuota, dimostrando “una disperazione muta vicina all’urlo”, come dichiara la regista a proposito di Je, tu, il, elle.
Da Mia madre ride a No home movie
Chantal Akerman muore nel 2015, pochi mesi dopo la morte della madre, ma prima di morire la regista belga filma la sua ultima opera cinematografica, un documentario dal titolo No home movie, in parte tratto da Mia madre ride, un memoir che si presenta come un lungo viaggio interiore nei ricordi e soprattutto nella vita della madre, Natalia, sopravvissuta all’Olocausto e legata alla figlia da un filo fittissimo che si attorciglia e si abbandona e poi ancora si attorciglia fino alla morte.
No home movie altro non è se non un insolito e dolorosissimo pedinamento. Chantal Akerman insegue con lo sguardo e con la macchina da presa la madre, mentre “dorme al centro del letto per non cadere la notte”, con una “luce accesa nel corridoio che porta al bagno”, mentre “va solo in terrazza e si ferma là, guarda il giardino desolato del piano terra, vede la sdraio che si è ribaltata per il vento che quando soffia si tira dietro tutto”, in un gioco di inseguimenti e sguardi e specchi che si dissolvono, sempre alla ricerca di un posto dove sentirsi a casa.
Molti anni dopo aver girato Je, tu, il, elle, Chantal Akerman dirà di “non avere più nulla in comune con questo personaggio fuori dalla società, disperato”, eppure qualcosa di comune resta: l’impossibilità di trovare un posto dove sentirsi a casa.
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