Una scena del film Ailleurs la nuit (Elsewhere at night) di Marianne Métivier, opera sensoriale su quattro donne che nella notte si ritrovano in qualche modo interconnesse

TFF 43 – Ailleurs la nuit, insonne frastuono

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7 minuti di lettura

La solitudine è rimasta senza sonno, a vegliare sulle anime che non si sentono più a casa, a lasciar esplodere la percezione anche quando non sembra ci sia più nulla da ascoltare. Ailleurs la nuit (titolo internazionale Elsewhere at night) della regista esordiente Marianne Métivier, in Concorso al 43° Torino Film Festival, vorrebbe essere puro cinema esperienziale, di una forma di interconnessione metafisica e sonora che superi la geografia spaziale e il normale scorrere del tempo, ma fallisce nel tentativo di trasformarlo in materia filmica compiuta.

Ailleurs la nuit ha vinto il Premio miglior scenaggiatura al 43 TFF.

Ailleurs la nuit, toccare il suono della connessione

Tra montagne che sembrano gigantesche balene e alberi frondosi di campagna che riempiono ogni orizzonte notturno, Marie (Camille Rutherford) è un’artista del suono che colleziona con lunghi microfoni direzionabili pezzi concreti di natura selvaggia. La sua vita di coppia cambia quando arriva Noée (Garance Marillier), una giovane estranea viaggiatrice senza apparente meta, e così accade anche a quella di Yan (Émile Schneider), contadino solitario che si esercita da solo in balli che richiederebbero invece un partner.

Parallelamente, nel cuore silenzioso della città, vivono altre due donne: Jeanne (Amaryllis Tremblay), studentessa che sta lavorando a un progetto di ricerca proprio sul lavoro di Marie, ed Eva (Kyrie Allison Samodio), giovane filippina che si è appena trasferita con la madre lasciando la famiglia dall’altra parte del mondo.

Kyrie Allison Samodio interpreta Eva in Ailleurs la nuit (Elsewhere at night), giovane filippina che si è appena trasferita con la madre in città lasciando la famiglia dall'altra parte del mondo

Ailleurs la nuit racconta di un intreccio di radici e geografie (come la regista stessa, Marianne Métivier, di origini quebecchesi e filippine), di traiettorie tangenziali che riuniscono differenze e distanze cartografiche, di frammenti sonori che si compenetrano gli uni con gli altri, in una forma di interconnessione umana – tra Marie, Noée, Jeanne ed Eva – che dà l’impressione che tutti quei personaggi, tutte quelle donne, siano giunte in realtà da una comune vita precedente. Ma l’ecosistema umano di Ailleurs la nuit, nella distanza di vite che si sfiorano appena, sembra aver perso tutto il suo equilibrio, come le processionarie che il compagno di Marie, Nico, cerca di contrastare per salvare la foresta boreale.

Così gli occhi delle quattro donne stentano a chiudersi, il loro corpo insonne rimane presente solo alla notte, perché le percezioni sono altrove (ailleurs nel titolo originale), in un altro luogo diverso da casa e a cui nessuna altra sensazione sente più di appartenere. È una dimensione collettiva che dalla realtà antropica in Ailleurs la nuit assume i contorni organici di un misterioso suono tattile, che ogni notte si posa aderente sulla pelle madida di sudore per il troppo caldo torrido dell’estate. Quel suono vibrante e frastornante richiama tra le quattro donne movimento e attrazione, rinnovamento e trasformazione, in una rivoluzione spaziale e materica che nello scalpitante fragrore interiore deve trovare un nuovo luogo familiare in cui finalmente riposare.

Anche in Ailleurs la nuit allora la trascendenza visiva, come nel cinema di Apichatpong Weerasethakul, è metafisica dell’incontro, avvicinarsi all’altro, anche a organismi animali che contengono più consapevolezza dell’umano (cani neri pazienti, falene che si credono reincarnazione di parenti lontani, serpenti che scivolano veloci sull’acqua di laghi selvatici in cui immergersi insieme), in una dimensione mai trapassata, ma alternativa, parallela, esistente a fianco della realtà come un suono congelato in uno stato di trance. Così Marie avvicina l’orecchio al terreno, alla corteccia che palpita di vita, si approfonda, non solo con la sua strumentazione tecnica, a quella materia gorgogliante in grado di accogliere tutte le vibrazioni che dentro di noi, senza alcun interfaccia, rimarrebbero altrimenti inascoltate.

Ailleurs la nuit, cinema sensoriale che non riesce a emozionare

Una scena del film Ailleurs la nuit (Elsewhere at night), in cui Camille Rutherford interpreta Marie, un’artista del suono che vive a stretto contatto con la natura

La regista Marianne Métivier, con Ailleurs la nuit all’opera prima, immerge la macchina da presa dentro la natura, dentro paesaggi screziati di fine, di cieli carichi di pioggia e nubi su cui allargarsi per poi procedere, in un elegante gesto filmico di dissolvenza, tra gli interstizi paralleli della città, di nuovo verso l’altrove del titolo. In questa ipersensibilità sonora, Métivier vorrebbe costruire un’opera profondamente sensoriale, di grande rigore formale e maestosità produttiva (sono esempi magistrali in questo senso il già citato Apichatpong Weerasethakul, ma anche la percettività infiltrante e capillare di Carlos Reygadas).

Il problema è che Ailleurs la nuit rimane un ascolto passivo, un frastuono sensoriale che non si traduce mai in rumore emotivo, a causa di una sceneggiatura troppo asciutta e di tante tematiche affrontate spesso solo per minimi accenni (il cambiamento climatico in primis, ma anche l’immigrazione e l’urbanizzazione che «cresce insieme al rumore»). Ailleurs la nuit non riesce infatti a far emergere le sue tante parti come Marie fa con perizia tecnica nelle sue immersive costruzioni sonore, integrate alla perfezione in palazzi uditivi che crescono organicamente nei decibel di uno spettrogramma.

Per fare un cinema sui suoni rimasti senza immagini (come nei diversissimi perché sostanzialmente politici traumi bendati di Un semplice incidente, ma anche l’onomatopea del male de La zona d’interesse, o ancora l’inerzia della visione ne La voce di Hind Rajab) serve più consapevolezza del mezzo, capire come da una mera somma delle parti intendere un’opera che sia insieme compiuta.


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Classe 1998, piemontese, passo costantemente dal buio della sala a quello della camera oscura, sognando sempre un mondo in bianco e nero stampato a mano con la grana fine. Sospeso tra l'immaginazione visionaria di Leos Carax e il realismo magico di Alice Rohrwacher, quando non scrivo di cinema (e per il cinema), studio medicina.

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