Riavvolgere il nastro può essere un atto di rottura. È una frase che potrebbe riassumere Broken Rage, l’ultima opera di Takeshi Kitano, e opera che si basa proprio sul premere il tasto indietro del telecomando, riavvolgere la pellicola e riguardare da capo. Ma la ripetizione non offre uno spettacolo identico a se stesso, ma diventa uno spazio di sperimentazione, dove ogni azione, dettaglio, battuta, svela il suo lato grottesco, ridicolo, maldestro.
Broken Rage e la rottura dello spartito dei generi
Nezumi (Takeshi Kitano), nome in codice Mouse, è un uomo che dietro l’apparenza ordinaria nasconde una vita parallela da sicario. Riceve gli ordini da un misterioso Signor M. che comunica con lui attraverso fascicoli consegnati in un bar. Dopo una serie di omicidi, Mouse viene catturato da due detective che gli offrono la possibilità di vivere libero, a patto di collaborare con la polizia come infiltrato nella yakuza.
Questa è la trama di base di Broken Rage: essenziale e lineare, con tutti i trope classici dello yakuza movie di cui il Kitano regista è uno dei maestri. La storia del sicario Mouse si risolve in mezz’ora: il resto della durata del film consiste in uno spin-off dove vengono ripercorse le stesse vicende ma adottando un registro comico-demenziale. Comicità fatta di gag ed estremizzazioni, altro elemento tipico del Kitano comico che spopolò nella televisione giapponese tra gli anni Settanta e Ottanta: una mescolanza tra registri e toni che segna da sempre il personaggio di Kitano ma che in Broken Rage si fa summa programmatica, testamento artistico e interiore.
Il sicario dal sangue freddo e la mano ferma dei primi trenta minuti si trasforma in una macchietta goffa che inciampa, impreca e cade dalle sedie. I suoi piani finiscono sempre per incappare in uno o più intoppi, mentre anche il mondo intorno a lui diventa un teatro dell’assurdo popolato da personaggi e situazioni ridicole.
Broken Rage e la maschera dell’avanguardia
Oltre al comico che funge da riscrittura del tragico, l’altro elemento peculiare di Broken Rage è la sua durata inusuale, di poco più di un’ora. In un panorama cinematografico internazionale dominato da lungometraggi dalle durate olimpiche, Kitano va nella direzione opposta: un’operazione consapevole che viene esplicitata in un altro segmento sperimentale rappresentato dal flusso di messaggi degli spettatori che interrompe la narrazione.
Il pubblico irrompe nel tempo diegetico portandoci dentro tutto ciò che ruota intorno al film: commenti, impressioni a caldo, polemiche, considerazioni sul budget che scarseggia, sul regista a corto di idee, sulla qualità delle scelte artistiche. “REFUND, I DEMAND A REFUND” (“Rimborso, voglio un rimborso”) si lamenta uno spettatore in un messaggio, al quale un altro risponde serafico: “Calm down it’s just a movie“ (“Calma, è solo un film”). Un altro spettatore aggiunge: “I mean movies these days have been ridiculously long sooo” (“Voglio dire, i film al giorno d’oggi sono così lunghi”), aprendo un altro piccolo dibattito di poche battute.
Un escamotage che diventa un’ulteriore iniezione di ironia in un film che si prende gioco di tutto: di se stesso, del suo regista/attore e delle sue opere, del concetto di genere, della tragedia e della commedia, dell’industria cinematografica, delle sue restrizioni pratiche e della sua povertà di idee mascherata da stratagemmi improbabili e finti kolossal dalla durata eterna.
Tutto questo indicando la maschera della finzione che continuiamo a indossare dappertutto senza nemmeno accorgercene, trasformando ogni luogo in palcoscenico, e invitandoci, se non a toglierla a riconoscerne l’esistenza, e magari a riderci su.
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