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Immagine tratta dalla locandina del film Parthenope (2024) di Paolo Sorrentino, in cui la protagonista è raffigurata nuotando sott'acqua.

Il canto di dolore di Parthenope. Respirare nella rinuncia o soffocare nella bellezza

13 minuti di lettura

Per comprendere la complessità di Parthenope, l’ultimo capolavoro del regista Paolo Sorrentino, bisogna farsi spazio intorno alla sterminata galassia di critiche e apprezzamenti che l’opera ha suscitato. L’approccio intertestuale del film ha come noto riferimento Ferito a Morte di Raffaele La Capria, forse il grande romanzo napoletano par excellence. Sorrentino, tramite La Capria, si riallaccia a una tradizione letteraria ossessionata dalla dualità tra bellezza e dolore e ci mostra il suo epico viaggio interiore.

Entrambi esplorano una Napoli stratificata di contrasti, un luogo di bellezza soffocante e di speranze infrante. Parthenope è un simbolo, rappresentante della lotta interiore e della nostalgia per una giovinezza trascorsa tra sogni e delusioni. Tale scelta mette in luce il modo in cui Sorrentino trasforma il dolore estetico in narrazione visiva, attingendo dalla “ferita” descritta da La Capria per elevare il cinema a un’opera mondo, un manifesto della giovinezza e dell’esilio esistenziale.

Parthenope opera mondo

Immagine tratta dal film Parthenope di Sorrentino, in cui la protagonista è rappresentata di spalle; sullo sfondo il balcone che si affaccia sul mare.

Parthenope, infatti, opera mondo voleva essere, opera mondo è stata. Così debordante di sfumature, di bellezza, di un’estetica vertiginosa. Uno sconfinato gioco di dialoghi spumeggianti, veri e propri scambi tennistici da cui Sorrentino ne esce vincitore indiscusso.

I grandi incassi al botteghino sono figli di un pubblico prevalentemente giovane, che raggiunge picchi sui 30 anni, ammassato nelle sale e in fila, in particolare nelle grandi città come Roma, Milano e Napoli. Sorrentino non è amato dai giovani solo perché parla di loro e degli amori giovanili, inutili, illusori e per questo bellissimi. È amato anche perché lo giudicano onesto sul piano istintuale. Attratti dalla schiettezza, si fidano, si abbandonano al mistero. Lo trovano infantile e lo amano ancora di più. Regista e spettatore collaborano alla ricerca del perduto: forse la giovinezza stessa.

Parthenope è il manifesto della giovinezza passata e dello spirito meridionale in esilio. Il protagonista del film è il tempo, che scorre inesorabilmente insieme al dolore, ma che è anche composto da una grande quantità di chiacchiericcio, tempo infinitamente perso.

“Perchè non hai mai più scritto un romanzo, Jep? Roma ti fa perdere ‘nu sacco ‘e tempo. Ti deconcentra”: così Jep Gambardella fuga i dubbi di chi lo interroga sulla sua crisi creativa ne La Grande Bellezza, premio Oscar per il miglior film in lingua straniera nel 2014. Quel che resta è quindi il momento decisivo; tutto il resto sono aspetti pericolosamente irrilevanti.

Parthenope, gli echi del suicidio di Raimondo

Immagine tratta dal film Parthenope di Sorrentino, in cui la protagonista e il fratello Raimondo si abbracciano.

Raimondo, fratello di Parthenope, confonde l’irrilevante con il decisivo e muore. Questo momento ricorda il suicidio di Tony Pisapia, il calciatore dell’Uomo in Più (David di Donatello per il miglior film di esordio nel 2002) che, dopo le parole tranchant, menefreghiste del suo ex Presidente (“Il calcio è un gioco e tu sei un uomo fondamentalmente triste”) si rende conto di non essere più disposto ad alimentare l’illusione della vita, compiendo l’errore fatale di prenderla troppo sul serio, sino all’estrema decisione di togliersela.

Con un cinismo dittatoriale, il regista ci dà un segnale inequivocabile: chi non sa scherzare, lo faccio morire. Sembra dunque che non resti altra possibilità se non quella di essere condannati a coltivare l’ironia. “Alla fine della vita resterà solo l’ironia” ci intima il tiranno Sorrentino in Parthenope, ironia come unico antidoto per schivare i traumi di un’esistenza “balorda”.

Il suicidio di Raimondo ricorda anche l’orecchio sanguinante di Massimo De Luca nella prima parte del romanzo di Raffaele La Capria, premio Strega nel 1961, Ferito a Morte. Qui, dominata dalla tecnica del flusso di coscienza, si apre la lunga descrizione dell’incubo della Grande Occasione Mancata: la spigola che si salva dall’arpione e nuota dentro il cassettone. È una metafora che condensa tutta l’essenza del romanzo: la distrazione ci allontana dal momento decisivo, che sfuma e non torna più.

Massimo si sveglia e deve fare i conti con la sua ferita provocata dalle chiacchiere, che si concentrano nel circolo nautico, in cui si manifesta l’inettitudine della borghesia partenopea, il brusio della pesca subacquea. Il protagonista che soccombe impassibile di fronte alla vittoria dei vitelloni napoletani che si arroventano nella disputa tra un Veuve Clicquot e un Pommery. Il dolore è quello di stare in mezzo al loro, che si acuisce nella cosiddetta “unità psicologica”.

Parthenope, la gioventù e l’esilio

Immagine tratta dal film Parthenope di Sorrentino, in cui la protagonista Parthenope (Celeste Dalla Porta) tiene una sigaretta in mano, sullo sfondo del mare di Napoli.

La scelta è sempre quella, tra soffocare nella bellezza e restare giovani per tutta la vita o sgambettare feriti in esilio, respirando nella rinuncia, portando con sé il soffio dell’armonia perduta. Parthenope ha scelto la seconda strada, andando via da Napoli verso Trento. Sceglie il clima rigido perché mette a riparo il cuore dai dettami irrazionali dell’anima. Lavorare, perché “è impossibile essere felici nella città più bella del mondo.” Ma il sole, sebbene lontano, la colpisce fatalmente.

Chi respira nella rinuncia è anche l’altro Tony Pisapia, il cantante dell’Uomo in Più, precursore di Tony Pagoda in Hanno tutti ragione; è Massimo, che, nella seconda parte di Ferito a Morte, va a Roma in cerca di fortuna letteraria; ma lo sono anche Paolo Sorrentino, Raffaele La Capria, Luigi Compagnone, Ermanno Rea, Antonio Ghirelli e tanti altri celebri. Lo sono i giovani esiliati meridionali che intraprendono un nostos omerico per porre un separè con le proprie radici, allontanandosi geograficamente e temporalmente dall’Algia.

Per questo, Parthenope è la protagonista di un’epica contemporanea, che fugge dal dolore portato in grembo dalla sua bellezza, scalciante come un soldato che combatte ogni giorno la propria guerra interiore.

Parthenope, Napoli come città delle contraddizioni

Immagine tratta dal film Parthenope di Sorrentino, in cui la protagonista, Parthenope (Celeste Dalla Porta), parla con John Cheever (Gary Oldman).

“La bellezza è come la guerra” dice a Parthenope un Gary Oldman monstre nei panni dello scrittore John Cheever, in blazer, bermuda di lino e ascot arancio in seta rigorosamente di Marinella. Solo a Napoli, l’unica megalopoli sudamericana italiana, nella complessità di una città che trabocca di contraddizioni, di napoletanità e napoletaneria, di bello e deforme, l’irrilevante si confonde, si amalgama e diventa rilevantissimo. Come in Parthenope e in Ferito a Morte.

“In questa città si ama e si muore per motivi futili” ed è per questo che il suicidio di Raimondo si esprime meglio come un mistero e non come un dramma. La prosa di Ferito a Morte lo predice e drappeggia con una crudezza meravigliosa.

Una stupida troppo forte giovanile emozione, a un altro colpo ugualmente irrimediabile e forse causale, ti mettono di fronte ad un fatto compiuto, compiuto una volta per tutte, o meglio, che si compie in ogni attimo della vita riproponendosi in tanti modi diversi, elusivi ma in sostanza quello, e sempre quello! E addio allora, dal momento che sai, addio al bell’oggi di prima che t’avvolgeva come l’acqua il pesce che nuota, le cose mute per te, mutate per sempre da quel momento, per sempre, e inutile è ostinarsi, mai più, mai più uno di quei giorni di prima, uno solo, ritroverai per caso una mattina. Tieniti quello che ti spetta, ad ognuno il suo, solo il modo è diverso, fanne un mistero se vuoi ma non un dramma, vivi se ti va, e se ti va di lasciarti morire, lasciati morire.

Il gesto folle diventa spartiacque del film e, dunque, della vita di Parthenope. La spinge alla vana ricerca di se stessa, ostaggio del retroterra culturale napoletano, delle pressioni familiari, della condanna della sua bellezza, che calamita le più frivole attenzioni dichi le sta intorno. Stanca, Parthenope va via giovane e torna in età matura, ma non troverà più niente se non ancora quella bella giornata di sole che veglia sui faraglioni, anch’essi immutabili, ancora lì. La natura che trionfa sulla storia. Ma c’è ancora una speranza.

Tanto spietata è l’evidenza del tempo che è passato, del volto della Sandrelli piegato dalle rughe, della sconfitta “già tutta prevista” nella lotta con la vita, i commenti inopportuni delle donne che ostentano la loro maternità e che inseguono Parthenope anche fuori dalla Foresta Vergine, degli amori morti. Quello che invece resta ancora è tutto condensato in un attimo di sospensione, là dove il ricordo è vivido e ci si può finalmente ricongiungere con la tanto temuta nostalgia.

Non sono scelti casualmente i versi di W.H. Auden, appartenente alla grande tradizione di poeti inglesi del primo Novecento, in Good-bye to the Mezzogiorno, una raccolta di poesie scritte in occasione del suo viaggio nel Sud e riportati da La Capria nel suo Ferito a Morte:

A benedire questa terra, le sue vendemmie, e chi
La chiama patria: anche se non puoi sempre
Ricordare con esattezza perché sei stato felice,
Non puoi scordare d’esserlo stato.

Parallelismi e rimandi creano un dialogo continuo tra i due autori e una fusione tra cinema e letteratura che evidenzia un tema universale: l’eterna dicotomia tra abbandono e bellezza. Un approccio che permette di cogliere la piena essenza di Parthenope, non solo come narrazione visiva, ma come prosecuzione ideale del viaggio introspettivo iniziato con Ferito a Morte, in cui la “ferita” e il “canto di dolore” diventano la chiave interpretativa per leggere tanto il passato quanto il presente.

Articolo di Andrea Romano.


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