Era già tutto previsto. L’ultimo film di Paolo Sorrentino sarebbe stato acclamato dalla critica, si sarebbe inserito armoniosamente nel percorso autoriale del suo regista, avrebbe rappresentato l’Italia agli Oscar 2024. E invece la vita non percorre quasi mai le strade che si pensavano già tracciate; Parthenope è stato scartato per gli Oscar in favore del debutto di Maura Delpero Vermiglio, non ha riscosso il plauso né della critica né dello scarso pubblico che lo ha visto in anteprima durante le proiezioni di mezzanotte con cui è stato lanciato e soprattutto si è rivelato essere uno dei testi più difficilmente contestualizzabili dell’intera filmografia del suo autore.
Nonostante le numerose sbavature del film, si tratta pur sempre del lavoro di un artista che indubbiamente continua ad avere qualcosa da dire, ma che forse si è lasciato “disunire” dall’autoreferenzialità con cui ha costruito questa Odissea napoletana, e per questo è compito di chi scrive mettere a confronto i punti in cui le immagini di Sorrentino strabordano dai contorni tracciati, e quelli invece in cui sono sapientemente delineate.
Meriti e Demeriti di Sorrentino
Protagonista è la titolare Parthenope, sirena della classicità Omerica e Argonautica, nata dalla spuma del mare come Afrodite ma abbandonata da ogni uomo come Arianna, cresciuta nella sfavillante Napoli degli anni 60′ e invecchiata lontano da essa nei seguenti decenni. Attraverso gli anni e gli incontri di formazione, gli amori, le lotte, le umiliazioni e le soddisfazioni della vita, Parthenope evolve, impara “a vedere” come non aveva mai saputo fare durante la giovane età, offuscata dalla superficiale bellezza della gioventù.
Purtroppo la trasformazione della protagonista trova poco riscontro nel film stesso, che continua a riciclare atmosfere, riutilizzare idee registiche e a ribadire i propri temi con un’insistenza che a tratti ha dello snervante: dopo aver sentito ripetere per la terza volta nell’arco di mezz’ora che Parthenope dovrebbe “lasciarsi andare,” lo spettatore può cominciare a intuire dove il film voglia andare a parare.
Altro esempio di questa duplice natura del film -lampante e fumoso al contempo- è il collegamento fra Parthenope e Napoli: già intuibile dal nome che porta, la vita della protagonista scorre parallelamente a quella della città, l’una influenzando l’altra. La metafora è chiarissima fin dalle prime inquadrature, motivo per cui il monologo finale dell’anziana Parthé’ su come sia stata “triste e felice, motivata e pigra… come Napoli” stoni non poco come ultima lezioncina da mettere nero su bianco per il pubblico.
Nonostante la veemenza di Sorrentino nel riarticolare i suoi messaggi, il film rimane abbastanza inconcludente: lasciarsi andare a cosa? Da cosa? Il regista certamente non ha intenzione di rispondere nettamente, ma più che lasciare il rompicapo nelle mani dello spettatore, qui sembra solo che la domanda posta sia troppo grossa perché una risposta possa soddisfarne il quesito.
In altri termini, Parthenope mette così tanta carne al fuoco -riflessioni sulla vita, sulla bellezza, sulla solitudine, sull’amore, su Napoli, sul tempo, sulla religione ecc. ecc.- che rimane incapace di tirarne le somme complessive. Va detto che la struttura narrativa tanto cara a Sorrentino qui non aiuta molto: la suddivisione del film in singole situazioni quasi autoconclusive nelle quali Parthenope si ritrova danneggia moltissimo il ritmo, già di per sé molto lento. Anche il solito massimalismo Sorrentiniano fatto di mirabolanti movimenti di macchina, musiche ritmate e montaggi forsennati, qui lascia posto solo a solenni slow-motion e sommesse inquadrature.
E questo è uno dei pregi del film: non che non si senta la mancanza dell’inventiva de La Grande Bellezza (2013) o della ferocia creativa di Loro (2018), ma di certo Parthenope segna un’ulteriore evoluzione nel percorso di Sorrentino; si tratta in fondo della cartina tornasole di È stata la mano di Dio (2021), della progressione e dell’inversione delle atmosfere partenopee di quell’ultimo film.
Lì Napoli è perfetta, è la cartolina meravigliosa sullo sfondo della triste adolescenza del regista, mentre in Parthenope è il luogo da cui fuggire, arrabbiati e delusi, e da riconquistare in seguito con l’esperienza degli anni e la capacità di “vedere” il bello anche dove durante i primi passi nell’età adulta si vedevano soltanto brutture. Le atmosfere crepuscolari di questo nuovo Sorrentino, scevre di immagini grottesche e virtuosismi tecnici, non riescono a stare al passo con le enormi domande che il regista si pone, ed infatti danno le risposte più soddisfacenti alle, poche, questioni più intime di Parthenope.
La Sirena Parthenope e la Ninfa Eurídice
Queste atmosfere lugubri e dilatate rimandano a svariati riferimenti culturali, primo fra tutti Roma (1972) di Federico Fellini: la struttura narrativa del flusso di coscienza è la stessa, anche se Parthenope certo non raggiunge la scioltezza di Fellini nella messa in scena di logiche oniriche; entrambi i film sono odi alle rispettive città -Roma/Napoli- costruiti di immagini e realtà contrastanti, slegate fra loro, eppure tutte simbolicamente rappresentative del luogo in cui si svolgono. Anche il film di Fellini ha alcuni degli stessi problemi di Parthenope, in particolare legati al ritmo sfilacciato e alla bulimia tematica, ma raggiunge picchi emotivi che Sorrentino purtroppo sfiora decisamente meno volte.
Quelle poche volte in cui Parthenope emoziona lo fa ricorrendo al fantastico: già con The Young Pope (2019) la traiettoria autoriale di Sorrentino sembrava stare avvicinandosi sempre di più al fantasy, fra miracoli, resurrezioni e interventi divini.
Negli anni successivi e nei seguenti lavori, questa impronta fantastica ha preso sempre di più le connotazioni di un assodato genere letterario e cinematografico, fino a culminare in alcune delle più memorabili sequenze di Parthenope: il titolo di questo articolo più che fare riferimento al felliniano Giulietta degli Spiriti (1965) -con il quale si potrebbe comunque fare un paragone riguardo la centralità della femminilità in contrapposizione con la mascolinità- vorrebbe rimandare a La Casa degli Spiriti di Isabel Allende, libro simbolo del realismo magico sudamericano.
L’aura mistica di cui è ammantato Parthenope, il piegarsi della realtà davanti ad eventi e personaggi larger-then-life, è prerogativa di quello specifico stile narrativo. Il soffio benedizione di Raimondo, fratello di Parthé’, è ascrivibile al modo in cui Clara del Valle conversa con gli spiriti, il figlio deforme di Silvio Orlando rimanda al figlio di Aureliano Buendía nel finale di Cento Anni di Solitudine, ma soprattutto l’intero personaggio di Parthenope sembra quasi ricalcare l’indipendenza e la magia di Eurídice Gusmao, protagonista del capolavoro brasiliano La Vita Invisibile di Eurídice Gusmao (2019) del regista Karim Aïnouz, peraltro in concorso a Cannes insieme a Sorrentino col suo ultimo film Motel Destino (2024).
Quando Parthenope abbraccia la stranezza, Sorrentino si insinua in luoghi reconditi della sensibilità di ognuno di noi. Accade poco nel film, ma quando accade tutta la maestria di un autore che seppure confuso resta autore, illumina lo schermo di sprazzi luminosi, ammiccando a quello che Parthenope sarebbe potuto essere con un po’ più di autocontrollo ed una visione più chiara e audace. Non c’è che da sperare che nel prossimo film Sorrentino torni a inscenare realismo magico, affinando ancora di più questa sua nuova sensibilità intimista.
La Napoli Velata di Sorrentino
A cosa starà pensando Sorrentino? A cosa avrà pensato scrivendo Parthenope e cosa deve pensare chi il film lo guarda aspettandosi di rimanerne stregato, solo per scontrarsi con la sua innaturale freddezza? La tesi di un film tanto visivamente ricco ed emotivamente povero può ritrovarsi in come tutto ciò che è bellissimo sia superficiale, compresa la giovinezza. Sorrentino, che in un modo o nell’altro si è sempre confrontato con la vecchiaia in tutti i suoi progetti, ha raccontato della prematura scomparsa dei genitori e di come si sia dovuto adattare alla vita adulta, fornendoci gli strumenti per leggere il suo cinema attraverso occhi terrorizzati dalle rughe e vogliosi di spensieratezza.
Parthenope non si esime da questa lettura: anche lei è costretta a misurarsi con la tragedia in giovane età, rinunciando alla superficiale bellezza di Capri, degli sguardi carichi d’amore -un continuo gioco di prospettive in cui a turno la cinepresa incarna o lei o il suo amante,- quando durante un funerale si scontra per la prima volta con i lati oscuri di Napoli, un camion per la disinfestazione del colera rumoroso e arrugginito.
Sempre a voler ribadire il concetto, Sorrentino ci mostra la soggettiva della protagonista intenta ad osservare il profilo cittadino, d’un tratto annebbiato da un lattiginosa coltre bianca; la stessa con cui inizia il film, una patina di tristezza che ammanta gli occhi di Parthenope, attraverso cui lei stessa deve muoversi per ricordare. Giusto qualche minuto dopo il film torna macchinosamente a ribadire il messaggio in un monologo di Luisa Ranieri, qui attrice che sconsiglia alla protagonista di fare cinema in quanto: “ha gli occhi spenti“.
Per superare questa nebbia, Parthenope si dedica all’antropologia imparando dal suo mentore, che le rivela: “l’antropologia è vedere. E cominci a vedere quando ti manca tutto il resto.” “Tutto il resto” è quello a cui Parthenope pensa sempre: all’amore, a Napoli, alla gioventù, e solo con l’età e con la negazione di questo “tutto il resto” potrà finalmente vedere la bellezza di Napoli, sepolta sotto la povertà dilagante, gli orrori della Camorra, le superstizioni locali.
Parthenope fugge verso Trento, rimane nubile, non ha figli e dialoga attivamente con È stata la mano di Dio come confessione di Sorrentino: da Napoli prima si scappa stomacati e poi si torna malinconici, perché la bellezza del mare è vuota, e si può riempire solo con le contraddizioni di cui vive la città, proprio come la bellissima Parthenope è frivola finché non accoglie ed elabora il dolore della vita. Per girare una lettera d’amore come È stata la mano di Dio, Sorrentino qui ammette di essersi dovuto guadagnare quell’affetto verso la propria terra prima fuggendo da essa come Fabietto Schisa e poi tornandoci da adulto, finalmente “vedendo oltre il velo.”
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