Vermiglio di Maura Delpero è stata la sorpresa di Venezia 81, dove ha vinto il Gran Premio della Giuria. Vermiglio non è un film come gli altri italiani in concorso quest’anno. Niente stardom nel cast, la regista è alle prime armi e non vi è una grande casa di produzione alle spalle. Forse proprio per tutti questi motivi il film risulta nuovo, capace di sorprendere. Nonostante non tratti di tematiche attuali (almeno a livello di significato esplicito), Vermiglio è una ventata d’aria fresca nello stantio panorama italiano, che tende a riproporre sempre le stesse narrative.
La questione linguistica e l’eredità della tradizione
La trama è semplice: nel 1944, l’arrivo di un soldato siciliano che ha disertato scombussola l’ordine del piccolo paese di Vermiglio, situato tra i monti del Trentino. Il film segue nello specifico le vicende della famiglia Graziadei, in particolare il modo in cui si articolano le vite profondamente diverse delle tre figlie Lucia, Ada e Flavia. Immancabile il punto di vista del padre, Cesare, figura patriarcale e insegnante di italiano, elemento importante in quanto il dialetto è una componente fondamentale del film.
La questione della lingua è affrontata in modo sottile ma diretto: i personaggi parlano in dialetto, reso comprensibile dai sottotitoli. Tuttavia, la regista non dà un accesso facilitato a questa realtà di montagna: in uno stile quasi documentaristico, la vita di queste persone ci viene mostrata con sincerità e concretezza. Il personaggio del padre pare essere il mediatore, non solo tra le lingue, ma anche tra il film e lo spettatore. In quanto maestro, Cesare insegna l’italiano ai bambini e anche a tutti gli uomini adulti che parlano unicamente il dialetto del luogo. In punta di piedi, in questa cornice, si inserisce Pietro, anch’egli analfabeta sebbene proveniente da una realtà totalmente diversa, quella siciliana.
Vermiglio inizia a mostrare così la sua complessa stratificazione: la regista ha affermato come il desiderio di fare questo film sia partito dalla morte del padre, originario di Vermiglio. Il film è un ritorno alle radici per Maura Delpero, ma lo è anche in generale per il popolo italiano. Il ladino, dialetto parlato nel film, è ufficialmente riconosciuto come lingua dalle provincie di Bolzano e Trento, oltre ad essere diffuso in altre regioni del Nord. Nonostante la sua importanza culturale, il ladino va scomparendo: la questione linguistica è fluida, in continua evoluzione.
È molto più probabile che le nuove generazioni del Trentino, come nel resto d’Italia, abbandonino la lingua arcaica della propria regione, favorendo invece una crescente anglicizzazione. Ciò è dovuto alla globalizzazione, alla crescente predilezione per la vita virtuale, specialmente da giovani che vivono in realtà isolate e limitate come quella di Vermiglio. La lingua cambia con le abitudini, ma è importante non dimenticare la tradizione: solo conoscendo il passato si può pensare di costruire il futuro.
Vermiglio, la grande storia vista da lontano
Il dialogo tra la realtà di Vermiglio e quella della Sicilia aggiunge profondità al film. Non è casuale che la regista, nel raccontare la guerra che decide il futuro dell’Italia, scelga un luogo lontano dal caos, dove persino le notizie più importanti arrivano come chiacchiericcio di paese. Mentre l’Italia è in tumulto, lo spettatore segue la storia d’amore tra Lucia, la sorella maggiore, e Pietro, il disertore siciliano. I due sono opposti ma vicini: da un lato le montagne che rendono tutto distante, dall’altro la Sicilia, terra amara e in parte esclusa dalla guerra. Si instaura una discussione sulla questione Meridionale, senza banalizzarla ma osservandola dall’interno.
Siamo lontani dal cinema d’azione, dove i personaggi sono attivamente parte degli eventi. Sullo schermo non è narrata la storia fatta dai grandi protagonisti poiché lo sguardo della telecamera ripudia l’azione fisica, favorendo piuttosto una narrazione introspettiva. Vermiglio si avvicina alla tradizione semi-documentaristica di Ermanno Olmi e al racconto della vita bucolica di Alice Rohrwacher. Nonostante i personaggi di Vermiglio non impugnino mai una baionetta (almeno durante il film) e non vadano a combattere in prima linea, la loro storia, piccola e privata, ci dice tutto ciò che è necessario sapere sull’Italia di ieri, facendoci così comprendere l’Italia di oggi.
Immagini e narrazione: la forza espressiva di Vermiglio
I significati che Vermiglio vuole trasmettere sono consegnati allo spettatore in maniera impeccabile. La fotografia regala campi lunghi di paesaggi che si alternano con le stagioni. Gli elementi della natura creano un mondo assestante e impenetrabile, in cui l’essere umano risulta fuori posto. La regia, perfettamente bilanciata, ci permette di penetrare sotto la pelle dei personaggi. Con una singola inquadratura Maura Delpero svela il destino di ogni individuo: lo show don’t tell domina il film, in quanto i personaggi non si raccontano mai a parole, ma sempre attraverso le immagini.
Personaggi interpetati in maniera magistrale da un cast quasi del tutto sconosciuto: siamo lontani dal dialetto finto, in dizione (come quello di Elio Germano in Iddu, altro film presentato in concorso) e approdiamo piuttosto sulle sponde del realismo. Anche il più piccolo bambino trasmette una sensazione di familiarità, come se lo spettatore avesse da sempre vissuto a Vermiglio e conoscesse ognuna di queste persone singolarmente. Il dialetto non conduce fuori dalla storia, ci fa calare ancora di più nei panni di questi individui, risultato sorprendente considerando che la storia si svolge nel 1944. Vermiglio fa sentire lo spettatore come se quella sullo schermo fosse una realtà quotidiana al giorno d’oggi.
Maura Delpero, una nuova speranza per il cinema italiano
Maura Delpero dimostra che non è necessario usare storie del presente per creare interesse nel pubblico. Ci si è lamentati più volte che in Italia esistono e persistono le solite narrative: il racconto di crimine nella periferia di Roma, il film sulla mafia, la commedia borghese. Vermiglio si distacca con forza da questi concetti ed esplora qualcosa di nuovo. Il film risulta fresco poiché personale: la perdita della tradizione è un argomento che riguarda tutti noi, con cui possiamo facilmente empatizzare. Ma la Delpero fa un passo in più raccontandola dal suo punto di vista, partendo dal particolare per condurci all’universale.
Vermiglio è anche ricco di un’incredibile sensibilità femminile, ulteriore motivo per cui è importante supportare questo prodotto quando uscirà in sala. Maura Delpero ha tutte le carte in regola per diventare la prossima grande regista italiana. Come ha detto Alice Rohrwacher, “È poco tempo, salvo rare eccezioni, che le donne hanno diritto di raccontare storie“. È necessario dunque favorire le nuove generazioni, gli sguardi femminili, tutto ciò che fino ad ora era sto escluso dal panorama italiano. Vermiglio è un fiero manifesto, un prodotto atipico che pone le basi per un nuovo cinema italiano. Sta allo spettatore cercare di sostenerlo per cambiare rotta una volta per tutte.
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2024 e ancora riuscite (voi giornalisti, blogger, recensori) a scrivere “dialetto” in riferimento a una lingua co-ufficiale dello Stato italiano, è così difficile usare le parole corrette?
Ciao Alessio, non capiamo il perché del commento così piccato. Dall’articolo, “Il ladino, dialetto parlato nel film, è ufficialmente riconosciuto come lingua dalle provincie di Bolzano e Trento, oltre ad essere diffuso in altre regioni del Nord. Nonostante la sua importanza culturale, il ladino va scomparendo: la questione linguistica è fluida, in continua evoluzione.” Il testo parla chiaro; si poteva forse fare un’ulteriore specifica, ma viene esplicitato che quello che un tempo era il dialetto ladino è ormai riconosciuto come lingua vera e propria. 2024 e ancora non si è capaci di leggere? Ci sono testate molto più note della nostra, di cui non facciamo nomi, sulle quali scrivono giornalisti – non giovani cinefili che portano avanti un progetto di cinema in un’associazione culturale – che hanno parlato di dialetto senza spendere una parola sulla questione linguistica, cosa che l’autrice dell’articolo – da profana, tra l’altro – si è invece premurata di fare. Apprezziamo che ci venga ricordato che le parole hanno un peso, ma in questo caso ci sembra di averlo bilanciato correttamente. Un saluto.