Crazy Heart è un film del 2009 con la regia dell’allora esordiente Scott Cooper e basato sull’omonimo romanzo di Thomas Cobb. Ci sono film per cui vale davvero la pena mettersi ben comodi per ammirare con una certa attenzione ogni singolo fotogramma: ma siamo davvero sicuri che lo stesso valga per Crazy Heart? La pellicola è stata messa in discussione da molti, ma tutti concordano sulla straordinaria prova attoriale che condusse Jeff Bridges dritto all’Oscar. Scopriamola.
Cuori pazzi
Quando per anni non hai fatto altro che vivere nel ricordo dei tempi andati, rimuginando tra un sorso e l’altro di Whiskey su come non sarai mai più baciato dalla gloria, ti lasci andare restando in attesa che l’ultima sigaretta ti corroda. Ed è proprio questo che sta aspettando Bad Blake (Jeff Bridges) Il Grande Lebowski, e nel tempo che lo consuma continua a vivere come se tutto avesse perso brillantezza, come se da quel decadimento non si possa più uscire.
L’ex stella del Country ha sperimentato l’amara sconfitta del declino, che come un peso sul petto non fa altro che schiacciarlo in un turbinio dolente, che altra arma non c’è se non quella di anestetizzare il dolore con lunghe sorsate di super alcolici, smorzate solo dall’odore della sigaretta. Bad Blake conduce, ormai da tempo, una vita priva di legami, perché quelli che ha avuto (quattro matrimoni alle spalle) si sono dimostrati incapaci di domare l’anima selvaggia di questo spirito ribelle. Tutto ha perso la lucentezza degli anni d’oro che il successo gli aveva generosamente concesso.
Bad Blake è diventato un residuo di esistenza, poco incline ai cambiamenti voluti dal passaggio del tempo, è ormai ingranaggio perfetto di quello squallore che lo circonda. L’uomo vive alla giornata, con i pochi, saltuari e mal pagati compensi che gli offrono per esibirsi in piccoli pub di provincia mentre, tra uno spettacolo e l’altro, si rinchiude in fetidi motel con lo scopo di annegare sempre di più quell’inettitudine nell’alcol.
L’angelo del poeta maledetto
Ogni giornata è scandita da questo vortice vizioso di insofferenza, fino a quando la bella e giovane Jean Craddock (Maggie Gyllenhaal) entra nella sua vita. La donna è una giornalista locale, da sempre appassionata della musica di Bad Blake, ma non ancora stanca di collezionare amori fallimentari. La donna scivola con grazia nella vita di questo eroe moderno e tormentato, rivelandosi a lui come una musa guaritrice capace di apportare sollievo, non solo alle ferite di quell’animo tormentato, ma si dimostra a lui come una potente ispiratrice capace di soffiare via la polvere dall’estro artistico dell’uomo.
La donna è molto diversa da tutte le altre che sono state di passaggio nella vita di Blake, è il suo candore a sciogliere l’animo disastrato dell’uomo, in sostanza la donna non da grandi prove d’amore se non quella di rivelarsi come un animo buono e gentile, pronto a baciare ogni vizio di Bad Blake.
Questa nuova presenza ha per l’uomo un ruolo catartico e sarà la spinta per la speranza di una nuova vita per cui valga veramente la pena di essere vissuta, magari al di fuori di una bettola ostruita dai residui di disfacimento. Questo perché esiste un mondo al di fuori di quella stanza maleodorante, fatto di cose semplici ma che spesso appaiono inafferrabili proprio per la loro semplicità, come un gelato al parco, l’odore del burro dei biscotti fatti in casa, parole quotidiane dense d’amore che a volte sembrano scontate perché si perde la voglia di credere all’effetto benefico che hanno sul cuore.
Indimenticabile?
Crazy Heart ripercorre chiaramente molti dei topoi del genere di redenzione, ed è per questo che abbiamo la sensazione di non stare a guardare nulla di nuovo, insomma, nulla che non si sia già visto.
Ed in effetti è proprio così, il percorso narrativo segue una linea ben precisa: un uomo disastrato al limite del fallimento lavorativo e psicologico che viene salvato su entrambi i fronti da una donna aurea che altro non fa che ricordargli quanto lui abbia ancora da offrire. Fin quando la donna ripone la cosa più cara nelle mani dell’uomo: suo figlio di 4 anni. L’incapacità dell’uomo di prendersi cura di sé dimostra come non sia capace di farlo nemmeno per gli altri, così smarrisce il piccolo poiché ha cominciato ad abituarsi anche a quella nuova quotidianità, anche a quel nuovo esempio di cosa bella: la fiducia.
L’allontanamento della donna dopo l’evento risulta dunque fondamentale ai fini del percorso che dovrà intraprendere Bad Blake, quello della redenzione. Il punto è che non dovrà dimostrare solo di essere salvo dal suo amico/nemico alcol ma deve essere all’altezza di capire che nulla è fatto per durare, così anche quel rapporto salvifico con la giovane donna. L’uomo imparerà che per essere felice deve innanzitutto voler bene a se stesso, a quell’uomo sulla soglia dei 60 che dovrà essere capace di reinventarsi e di essere lui stesso il suo unico analgesico al dolore.
La donna a questo punto si costituisce come l’elemento fondamentale per il riavvio della vita dell’uomo. La relazione tra i due non assume affatto i toni dell’occasione perduta ma in un senso più alto si configura come la terapia per poter riavviare un’esistenza segnata.
In fin dei conti Blake non è mai stato veramente da solo, basti pensare all’amico storico Wayne Kramer (Robert Duvall) il quale non ci pensa due volte a correre in suo aiuto quando l’alcolista si convince di avere bisogno della riabilitazione. Anche il suo discepolo, il ragazzo a cui è stato insegnato tutto e nuova stella del country Tommy Sweet (Colin Farrell), più che riconoscente di tutto quello che Blake gli ha lasciato, non smette di dare al suo vecchio insegnante l’occasione di potersi esibire di nuovo al suo fianco.
Probabilmente è qui che risiede la falla del film, ciò che lo riconsegna al “già visto” la mancanza di un approfondimento sull’amicizia che lega l’uomo alle uniche due figure che lo abbiano mai amato. L’accento su quel denso legame che spesso unisce uomo e uomo è stato relegato a pochi e rarissimi frammenti che hanno impedito dunque alla sceneggiatura di avere quel qualcosa in più.
Cooper a questo punto sembra essere ancora troppo legato ai paradigmi del cinema classico, con donne avvolte da un’aurea purificatrice, di quelle che “ti salvano” e poi ti mollano sul più bello. In fondo Jane cosa ha avuto in cambio da questo rapporto? Si è rivelata l’ennesima croce rossa di turno che cerca di salvare uomini (a suo enorme rischio e pericolo) pestati dal loro ego e dall’incapacità di fare qualcosa di veramente concreto per loro e per gli altri. Presumibilmente la pellicola avrebbe guadagnato molto più consenso se si fosse cercata un’alternativa diversa alla resurrezione di Bad Blake, magari una soluzione diversa per quello scioglimento centrale che è la salvezza.
Già visto ma con qualcosa in più
Cos’è che rende Crazy Heart diverso dagli altri film di questo genere? Beh senza dubbio le notevoli capacità attoriali di Jeff Bridges, il quale sembra che il ruolo gli sia stato cucito addosso. Ogni passo malconcio, ogni ruga segnata e anche quel sudore da sbornia che gli riga il volto, rinnovano la figura già vista nella fine dell’800, quella pensata da Verlaine, quella dei poeti maledetti. Artisti incapaci di dominare il forte sentimento nostalgico che li rendeva insofferenti all’esistenza, che troppo male provocava e l’unica arma era l’autodistruzione per mezzo dell’eccesso.
La brillantezza del film è dunque condensata nella capacità di Bridges di vestire magistralmente i panni di un uomo incastrato in uno stile di vita al di fuori di ogni regola e che poi ha finito per divorarlo vergognosamente. In effetti anche lo stesso Jeff Bridges è considerato uno di “quelli” fuori dallo star system hollywooddiano con una sorta di misteriosa fascinazione e avversione allo stesso tempo. È lo stesso New York Times a confermarlo, riconoscendolo come «il più sottovalutato grande attore della sua generazione».
L’apprezzamento maggiore che va rivolto alla sua performance riguarda soprattutto la capacità di rendersi, in alcune scene, una figura silente e calibrata al punto giusto da non permettere un’invasione schermica di quella ingombrante personalità. Per questo, nella maggior parte delle scene in cui è presente la dolce Maggie Gyllenhaal non vediamo mai uno scontro performativo, è come se Bridges cedesse con con umiltà a quel vigore sentimentale della Gyllenhall senza mai oscurarla.
Questo tacito mimetismo non è passato inosservato all’Academy, la quale nel 2010, gli conferisce, l’oscar come miglior attore protagonista proprio per Crazy Heart ed assicurandosi anche il Golden Globe per miglior attore in un film drammatico.
Seppur la sceneggiatura risulti fin troppo semplice, scandita da passaggi buonisti ed una regia quasi sempre priva di carisma, non si può non rendere omaggio alla prova canora sostenuta da Jeff Bridges. Il film per emergere in quella melodia rauca, dura e dolente aveva bisogno di un’interpretazione musicale veritiera e Jeff Bridges ha segnato anche da questo punto di vista. I pezzi musicali originali sono cantati dagli stessi attori, il che permette al film di essere ricordato solo grazie all’importanza assegnata al ruolo musicale. A questo punto sembrano più che giustificati l’Oscar ed il Golden Globes alla miglior canzone originale The Weary Kind di Ryan Bingham.
Perdersi nell’aridità
D’altronde Jeff Bridges in quei luoghi ci sta più che bene, è li che l’attore di Crazy Heart inizia a dare forma alla sua carriera, in quel clima rurale della tradizione americana la cui musica folkloristica investe le corde di chi la vive, di chi la rasenta.
Gli spazi sconfinati delle terre arse e deteriorate dal sole appaiono troppo grandi per essere solcate, troppo aperte per essere chiuse, esattamente come la condizione del protagonista, rinchiuso in una gabbia troppo grande per cercarne l’uscita.
Ma in fondo basta mettersi alla guida, con una buona dose di volontà per cercare la fine di quell’immensità, la strada è dritta e le bettole sono solo soste in cui dare sfogo a quell’indolenza furibonda.
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La penso anche io cosi Bell’articolo.