E riusciremo, vedrai, a essere abbastanza felici, con molta semplicità, uomo con donna solamente, come suole accadere in ogni parte del mondo. Ma tu – adesso ci penso – sei troppo lontana, centinaia e centinaia di chilometri difficili a valicare. Tu sei dentro a una vita che ignoro, e gli altri uomini ti sono accanto, a cui probabilmente sorridi, come a me nei tempi passati. Ed è bastato poco tempo perchè ti dimenticassi di me. Probabilmente non riesci più a ricordare il mio nome. Io sono ormai uscito da te, confuso fra le innumerevoli ombre. Eppure non so pensare che a te, e mi piace dirti queste cose.
–Inviti superflui, Dino Buzzati
Madrid, 31 dicembre 2015. Oscar (Francesco Carril) festeggia la fine dell’anno appena trascorso con Vero (Lucía Martín Abello) la sua ex, nella discoteca in cui Ana (Iria del Rio) lavora come barista. Si incontrano per caso, nella confusione e nel rumore, nel primo dei loro dieci Capodanni, scoprono di essere nati a poche ore di distanza l’uno dall’altra – lui è l’ultimo nato del 1985, lei la prima nata del 1986 – e si innamorano, senza saperlo, senza capirlo.
Madrid, 31 dicembre 2024. Dieci anni dopo, dieci Capodanni dopo, Ana e Oscar sono di nuovo insieme, sono ancora insieme. Le loro parole si confondono nel silenzio di una stanza d’hotel, l’unico luogo in cui possono incontrarsi ora che le loro vite hanno preso due direzioni diverse. Piangono, ridono, discutono, si abbracciano. Non hanno mai smesso di amarsi, eppure sono stati lontani. Adesso lo capiscono, adesso lo sanno.
Iniziano così il primo e l’ultimo episodio di Dieci Capodanni, serie tv spagnola scritta e diretta da Rodrigo Sorogoyen – il regista di As Bestas (2022) e Madre (2019) -, presentata in anteprima alla Mostra del Cinema di Venezia e disponibile su Raiplay dal 31 gennaio 2025. Dieci episodi, dieci Capodanni. 469 minuti dietro cui si nascondono circa 6311520 minuti di vita, della vita di due trentenni che si incontrano, si perdono, si rincorrono e infine si ritrovano.
Le epifanie dell’amore da One Day a Before Trilogy a Dieci inverni
Dieci Capodanni si colloca sulla stessa linea cinematografica di One Day (2011) di Lone Scherfig (tratto dall’omonimo romanzo di David Nicholls e recentemente trasposto in una serie televisiva per la regia di Manners, Snellin, Hardwick e Hewitt) e di Before Trilogy di Richard Linklater.
One day è la storia di Emma e Dexter, due persone che per vent’anni (dal 1988 al 2011) si ritrovano il giorno dell’anniversario del loro primo appuntamento, il 15 luglio. Il secondo racconta in tre diversi capitoli – Before Sunrise (1995), Before Sunset (2004) e Before Midnight (2013) – la storia di Celine e Jesse, che si incontrano per la prima volta su un treno diretto a Vienna, trascorrono la notte insieme in giro per la città parlando di poesia, di amore, di vita, e non smettono mai di cercarsi, anche se gli anni passano.
Ciò che accade ad Ana e Oscar in Dieci Capodanni, a Emma e Dexter, a Celine e Jesse è ciò che accade anche a Camilla e Silvestro in Dieci inverni (2009) di Valerio Mieli, film definito dallo stesso regista “anti – colpo di fulmine”, poichè Camilla e Silvestro si incontrano a Venezia nel 1999, quando hanno solo 18 anni, e poi si ritrovano a Mosca, ancora a Venezia, infine a Valdobbiadene, alla soglia dei 28 anni.
Si potrebbe dire, dunque, che Dieci Capodanni inizi dove Dieci inverni era finito, che Dieci Capodanni sia, più o meno volontariamente, il sequel immaginario di Dieci inverni, non solo per la scelta dell’arco temporale – dieci anni – e della stagione – l’inverno, il giorno di Capodanno -, ma anche perché se Dieci inverni racconta l‘educazione sentimentale di due giovani ventenni alla soglia dell’età adulta, Dieci Capodanni mostra, invece, le fragilità, i vuoti, le paure di due (ancora) giovani trentenni.
Ana è un groviglio raggomitolato con cura ma sempre profondamente irrisolvibile. Non c’è nulla di stabile nella sua vita: vive in un appartamento condiviso, cambia spesso lavoro (da giornalista a creatrice di un’attività gastronomica), non ha amici su cui poter contare ma solo conoscenti in grado di esserle vicino ma mai veramente accanto. Ha paura della routine, della sensazione di stare perdendo qualcosa. Vive a Madrid, ma vorrebbe non vivere in nessun luogo e contemporaneamente in ogni luogo. Pensa pochissimo, agisce molto e soprattutto in fretta, si innamora di Oscar e poi di Manu, di se stessa mai.
Oscar è una scheggia di vetro che cade per terra senza spezzarsi. Non c’è (quasi) nulla di instabile nella sua vita: è un medico internista, ha pochi amici a cui aggrapparsi e di cui si fida, le sue giornate sono sempre uguali, la planimetria del suo cuore sempre identica. Ha paura di fidarsi perché ha paura di soffrire, vive nel dispiacere per evitare il dispiacere stesso, preferisce non illudersi, non sperare, non vivere.
Il loro amore è “un amore a prima vista, a ultima vista, a eterna vista”, per dirla con le parole di Vladimir Nabokov. E se è vero che l’amore a prima vista non è possibile, perchè – come afferma Dewey – “ciò di cui le persone si innamorano non è una cosa di quell’istante” dal momento che è piuttosto complesso definire “che cosa sarebbe l’amore se fosse compresso in un momento in cui non c’è spazio per il prendersi cura e per la premura”, allora quello di Ana e Oscar non è un amore a prima vista, ma un amore che ha bisogno di dieci anni, di dieci Capodanni, per rivelarsi.
È un amore che nasce, forse, solo dal desiderio di prolungare il più possibile l’emozione di quel primo incontro, di quel primo riconoscersi tra gli altri, nonostante gli altri.
L’estetica della quotidianità e del tempo che (non) passa in Dieci Capodanni
Quella che si dipana nei dieci episodi che costituiscono Dieci Capodanni è un’estetica della quotidianità, della normalità, ma è anche un’estetica della realtà e dell’imprevedibilità. Attraverso la macchina da presa, infatti, Sorogoyen coglie la normalità e l’imponderabilità del reale, di un reale che sfugge a ogni possibilità di controllo e che abbraccia momenti vuoti, persi e brutti.
Le immagini di Sorogoyen non sono cinematograficamente belle, i movimenti di macchina non sono stravaganti: il regista sceglie spesso di adottare il piano sequenza, sceglie di porre la macchina da presa, perfettamente stabile, al centro di una stanza, e di riprendere i personaggi nei loro movimenti e nei loro pensieri, senza inseguirli, forse solo spiandoli, come se la macchina da presa fosse una finestra.
Ognuno dei dieci episodi mostra un giorno di vita, sempre lo stesso, per dieci anni. E di quel giorno Sorogoyen sceglie di raccontarci tutto, ogni movimento, ogni conversazione, anche ciò che è inutile, anche ciò che potrebbe non essere raccontato. Non ci sono tagli, nè raccordi di montaggio, il tempo sullo schermo scorre così come scorre il tempo reale, ma il tempo in realtà è quello che si nasconde tra un episodio e l’altro, e non viene mostrato. Lì è la vita.
Planimetria di un incontro, di un amore, di un addio, da Ginzburg a Plath a Calvino
Un giorno incontriamo la persona giusta. Restiamo indifferenti, perchè non l’abbiamo riconosciuta. Passeggiamo con la persona giusta nelle strade di periferia, prendiamo a poco a poco l’abitudine di passeggiare insieme ogni giorno. […] Noi ci siamo sbagliati già tante volte: ci siamo trovati in presenza della persona giusta, e non lo era. […] Ci rendiamo conto che mai abbiamo avuto un rapporto simile a questo con nessun essere umano; tutti gli esseri umani ci apparivano dopo un po’ così inoffensivi, così semplici e piccoli; questa persona, mentre cammina accanto a noi col suo passo diverso dal nostro, col suo severo profilo, possiede una infinita facoltà di farci tutto il bene e tutto il male. Eppure noi siamo infinitamente tranquilli.
–Le piccole virtù, Natalia Ginzburg
A scrivere queste parole è Natalia Ginzburg in una raccolta di racconti dal titolo Le piccole virtù, pubblicata per la prima volta nel 1962. Ciò che prevale nel groviglio di queste righe è la sensazione flebile del riconoscimento, non scevro di errori, ma intriso al contrario di interrogativi che affollano la mente all’improvviso.
Aver paura di non riconoscere la persona giusta in mezzo a tante altre. Aver paura di lasciarla andare via, perchè, come scrive Sylvia Plath, “quando infine trovi qualcuno in cui senti di poter riversare la tua anima, ti blocchi di colpo davanti alle tue stesse parole – le hai tenute dentro così a lungo, contratte nel buio, che sono ormai sbiadite, brutte, banali e fiacche”.
E allora le storie d’amore di Ana e Oscar, di Emma e Dexter, di Celine e Jesse, di Camilla e Silvestro, sono tutte animate da uno stesso desiderio, quello che Italo Calvino racconta ne L’avventura di un automobilista, uno dei racconti della raccolta Gli amori difficili. In un mondo in cui è impossibile “distinguerci dai tanti segnali che passano, ognuno con un suo significato che resta nascosto e indecifrabile perché fuori di qui non c’è più nessuno capace di riceverci e d’intenderci”, l’unico desiderio possibile è che anche l’altro stia correndo verso di noi.
“M’accorgo che correndo verso Y ciò che più desidero non è trovare Y al termine della mia corsa: voglio che sia Y a correre verso di me, è questa la risposta di cui ho bisogno, cioè ho bisogno di sapere che lei sappia che io sto correndo verso di lei ma nello stesso tempo ho bisogno di sapere che lei sta correndo verso di me”.
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