Operazione azzardata – per questo ambiziosa – All’ultimo respiro è l’epitome più concreta del cinema di McBride, la summa di uno sguardo disorganico, sensuale, votato al riuso e al dominio dell’artificio. C’è, in quest’opera, un lavoro sui corpi come strumenti di diagnosi, il ricorso a uno stile che è anzitutto anima, criterio ordinatore di sequenze furiose.
Nessuna pellicola fissa così bene il decennio di appartenenza. Ogni dettaglio è sgargiante, l’ipertrofico culto dell’ego domina la trama. Non c’è profanazione, dunque, dello spunto narrativo posto a base da McBride, giacché À bout de souffle (1960) di Godard è qui rovesciato, svuotato, piegato alla rutilante estetica di anni cannibali.
Modelli, corpo e ambiente
A ben vedere, il regista americano sovverte Godard allo stesso modo in cui questi ‘minava’ il crime. L’errare e l’errore di Belmondo – così spiazzanti per un cinema frusto – sono ora compressi in un «ritmo dopato»[1], sintetizzato dall’indomita foga di Richard Gere che McBride presenta nudo a favor di camera, novello Silver Surfer dall’animo ribelle.
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Lo schema del road-movie, stancamente riprodotto, assume i tratti di una stereotipia ricercata, perfetto proscenio di un mondo vacuo, in cui l’indugio sulla carne rivela l’usura di antichi valori. In quest’ottica, il regista stabilisce un nesso tra ambiente e corpi che fa, dell’opera, un’impareggiabile regesto dei nonluoghi [2], laddove mancanza d’identità e relazione si traducono in una Los Angeles pullulante di edonismo – violenta, frenetica, tragicamente consumata.
L’estetica dell’impermanenza
Dominato da una stilizzazione visiva al limite del pop, il lavoro di McBride gioca con l’impossibilità dell’happy end costruendo un’atmosfera da videoclip musicale, in cui la sensualità dei colori traduce il senso d’assoluta impermanenza.
La storia tra il ladruncolo d’auto Jesse Lujack (Richard Gere) e la studentessa francese Monica Poiccard (Valérie Kaprinsky) è segnata, come per Godard, dalla caducità dei rapporti. Non vi è tuttavia divagazione né perdita totale, bensì un irrefrenabile senso di vuoto, l’«urgenza incandescente»[3] di metterne a fuoco il ‘governo’.
Tra amore e impulsi
«Come è possibile – si chiede Mario Sesti – raccontare qualcosa di disperato e romantico – la scoperta di un corpo e di un volto dei quali non puoi più fare a meno – quando tutte le immagini e le parole per farlo sembrano essersi consumate da tempo?» [4]
L’egemonia dell’apparenza degrada l’amore a un discorso carnale, in cui i dettagli fisici (dai pettorali di Gere alle curve misurate di Kaprisnky) svelano l’impossibile rappresentazione di un sentimento assente. Il bisogno dell’altro – intenso, rapinoso – è traduzione di un impulso più che vero erotismo.
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McBride fissa quest’aspetto in sequenze memorabili, dove alle carezze audaci si sommano le inquadrature piene di fumetti, secondo una grafica modellata sul concetto di uso e consumo. Anche la scena della piscina – omaggio alla pop art di David Hockney – è in realtà allegoria di un fugace presente, composto – come i momenti passati, eternamente vuoti e uguali – dalla ripetizione ormai frusta dei soliti gesti.
«Che importa se ci amiamo» esclama a un tratto Monica, e tale frase racchiude il senso di un finale tronco, inevitabilmente privo di dolcezza, certo lontano dal ‘non detto’ del modello. Non c’è spazio per la misura nell’opera di McBride, dove persino Eros e Thanatos mutano segno e il crinale dello squilibrio è fortemente labile.
Note
[1] M. Sesti, All’ultimo respiro, SEX! i 50 film più erotici della storia del cinema, supplemento a “Ciak”, 10, ottobre 2003, p. 68.
[2] La definizione, come noto, si deve a Marc Àuge, Nonluoghi. Introduzione a una antropologia della surmodernità, Milano, Elèuthera, 1995.
[3] M. Sesti, All’ultimo respiro, SEX! i 50 film più erotici della storia del cinema, supplemento a “Ciak”, 10, ottobre 2003, p. 68.
[4] Ivi, p. 60.
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