Dalla virtuosa osmosi tra teatro e letteratura Alberto Lattuada trae lo spunto per il suo esordio; Giacomo l’idealista (1942) conserva infatti i modi della violenza di De Marchi, la cui penna – imbevuta di ardore – funge da supporto a un timido realismo, ancora lontano dagli slanci della Lupa (1953). L’opera, benché giocata «sul piano freddo e sonoro della ricerca formale»[1], risulta efficacemente tramata di indolenza, secondo un’idea di trasposizione visiva dei caratteri.
La storia di Giacomo (Massimo Serato), professore di filosofia tornato ‘a casa’ dalle campagne garibaldine è, in realtà, una vicenda di frustrazioni. Animato da utopie indefesse, l’uomo si scontra con una realtà socio-familiare disastrata, finendo per soccombere a esigenze terrene. Il matrimonio con Celestina (Marina Berti) – nel momento in cui sembra ‘ri-posare’, in attesa di tempi felici – è insidiato dall’ombra del potere e della crassa supremazia: Giacinto (Andrea Checchi), rampollo dei conti Magnenzio, abusa della giovane certo del suo silenzio.
Un dramma di classe
È, nelle intenzione di De Marchi e Lattuada, la rappresentazione plastica di quei rapporti sociali. Calati nella società ottocentesca, i personaggi vivono le divisioni di classe come doveri da interpretare: alla nobiltà spetta il dominio, al popolo la sottomissione. Massimo Serato, da cui Lattuada trae il meglio, restituisce l’immagine di una certa condiscendenza, «un’ossequiosità piccolo borghese»[2] forse assente nell’opera originaria ma qui espressa in funzione dimostrativa, come a denunciare l’appiattimento su posizioni conservatrici.
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A colpire è soprattutto la prova di Checchi, da Pietrangeli descritto come «uno dei nostri attori più alacri e su cui si può contare sempre, a cuor sincero»[3]. L’interpretazione di Giacinto è infatti una radiografia impietosa della boria nobiliare, un atto d’accusa verso pratiche ataviche. Formidabile negli sguardi sprezzanti, inteso nel digrignare i denti, nello stringere i pugni, Andrea Checchi dà corpo – con una precisione che è propria del potere – a un maniacale desiderio di possesso, specchiato del resto nella figura della ‘vittima’, ottimamente incarnata dall’esordiente Berti.
Femminile e tragedia
La contrapposizione tra la sua attitudine prona – tragicamente dormiente, come quando verrà assalita – e la ferina brutalità del conte fanno, del suo personaggio, un archetipo della donna-vittima. Silente, ‘riposante’, Celestina sopporta per destino e ruolo i flagelli subiti. In quanto orfana ‘accolta’, onorata dell’amore di Giacomo, la giovane incassa i soprusi senza far rumore – tanto che, per tacitare lo scandalo, la contessa la spedirà in città, sì che possa patire – lei sola – la pena del suo genere.
È un dramma sociale quest’opera di Lattuada, l’immagine scabrosa di un territorio avaro, in cui il divario fra classi è percepito – nei fatti – come un dato esiziale. Le inquadrature in esterni, in quella «Lombardia malinconica e vera, umorosa e ragionevole»[4] mitigano il peso della tragedia, e non è certo un caso che qui si svolgano le sequenza più intimamente ‘fiduciose’: l’incontro d’amore fra Celestina e Giacomo e la fuga di questa verso la casa di lui. Non è che una sospensione magica, in quella violenza che travolge «le cose e gli spettatori per non lasciarli più»[5].
Note
[1] A. Pietrangeli, Giacomo l’idealista, in A. Maraldi (a cura di), Verso il realismo, Cesena, Società Editrice «Il Ponte Vecchio», 1994, p. 165.
[2] Ibidem.
[3] Ivi, p. 166.
[4] Ivi, p. 167
[5] Ibidem.
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