Primo film di Louis Malle, datato 1957, Ascensore per il patibolo (Ascenseur pour l’echafaud) segna in maniera decisiva la carriera del giovane regista nato nel 1932. Fino a quel momento si era segnalato per le riprese subacquee, con Jacques Costeau, di Le monde du silence.
Nato da una ricca famiglia agiata, il cinema diventa strumento di ribellione famigliare, prima ancora che civile. Spesso accostato alla Nouvelle Vague, ne rimane sempre estraneo e parallelo. Contaminato dal cinema di Bresson, di Hitchcock e Lang, segue un percorso di ricerca personale e sempre lontana dall’ovvio.
Ascensore per il patibolo viene ritenuto tuttora un film cult, nonostante le sue imperfezioni. Che cosa lo rende speciale?
«Ascensore per il patibolo», trama
Parigi. Ideato il piano con l’amante Florence (Jeanne Moreau), Julien Tavernier (Maurice Ronet) uccide il suo datore di lavoro (anche marito di Florence), fingendo il suicidio. Il piano è ben organizzato, ma una disattenzione costringe Tavernier a tornare all’interno dell’edificio mentre il portiere sta per disattivare la corrente. Tavernier resta bloccato nell’ascensore, mentre Florence lo attende in una piovosa Parigi.
Nel frattempo il giovane Louis (Georges Poujouly) e la sua ragazza Véronique (Yori Bertin) rubano auto e pistola di Julien. Dopo aver soggiornato a nome suo in un motel, uccidono una coppia di turisti tedeschi.
La polizia, nella figura del commissario Cherrier (Lino Ventura) vuole risolvere gli enigmi delle due vicende.
Lo sguardo e la musica
L’apertura del film sono gli occhi di Jeanne Moreau, sensuali e caldi. Uno sguardo accompagnato dalle note improvvisate, malinconiche di Miles Davis, straordinaria colonna sonora del film. In un certo senso, l’immaginazione della protagonista sembra esplodere nella rapsodia jazzistica. Se la musica è la geometria dell’anima; se il tempo, così condensato, così preciso del film, è l’aritmetica dell’anima; allora il film è un lungo canto dell’anima di Florence (Jeanne Moreau). Un’anima tanto tenebrosa come i molti luoghi chiusi del film (la cabina telefonica, l’ascensore, gli uffici, il commissariato, la camera oscura), tanto vitale come gli spazi aperti (le passeggiate sugli Champs-Élysées, i paesaggi notturni, le visioni di Parigi dall’alto, il motel nella periferia).
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Un’anima sola, così come sola è quella dell’amante – complice Julien Taveriner (Maurice Ronet). Intrappolato nell’ascensore così come si rimane intrappolati nelle dimenticanze e nei rimorsi della mente (la fune lasciata appesa è simbolica). Due anime sole che mai si incontrano nel film, se non nel destino infausto che li accomuna.
Un’opera prima che non si scorda
Sono diversi gli elementi che, a dispetto di una sceneggiatura che non sempre tiene coerenza e coesione (soprattutto nelle sequenze finali) rendono il film indimenticabile. I lunghi Longtake di Florence sono una scelta registica che lo allontanano dalla Nouvelle Vague, a cui spesso viene ricondotto. Il gioco di buio e luci dell’interrogatorio di Julien. La camera oscura, meta-rappresentazione del Cinema stesso, come luogo di disvelamento di una verità occultata e mal compresa per tutta la durata della narrazione.
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Ma alla fine di tutto, rimane sempre la stessa sequenza impressa nella mente, più di tutto. Jeanne Moreau, sotto una pioggia scrosciante, sola, fragile, delusa, con lo sguardo perduto nel nulla, sonnambula. La sua anima non ha parola, non ha grida, non ha espressioni o gesti da esprimere. Soltanto le rimane un lungo suono, decadente e triste, che s’apre come s’aprono gli Champs-Élysées. Il sentimento jazz si apre, e si diffonde verso l’alto, verso un cielo che non si cura più del destino, indifferente e buio.
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