Non sono poche le polemiche che ha già suscitato l’ultimo lavoro cinematografico di Martin Scorsese, regista icona del cinema mondiale. Si parla di questo film come degli highlights del cinema di Scorsese, come una sorta di testamento poetico e intellettuale, nonché registico.
La gestazione di «The Irishman»
Il primo dato che fa notizia è relativo alla gestazione del film, al fatto eclatante che ci sono voluti 5 anni per la sua realizzazione e che è stato girato per il 70% in digitale e per il 30% in 35mm e che una casa di produzione cinematografica come la Paramount non ha dato la disponibilità a coprire le spese di produzione, in effetti esorbitanti (oltre 140 milioni di dollari), disponibilità data invece dal colosso dello streaming Netflix, del cui sodalizio Scorsese si è mostrato entusiasta, al punto che in un primo momento si era stabilito che The Irishman fosse distribuito solo sulla piattaforma di streaming senza approdare sulle sale del grande schermo. Per fortuna non è stato così e il film è stato prima presentato al London film festival e poi alla festa del cinema di Roma, per poi essere proiettato nelle sale italiane per tre giorni prima di essere distribuito da Netflix. Scorsese commenta così la vicenda in una intervista con Paolo Mereghetti per il Corriere della Sera:
Negli ultimi trent’anni ho sempre lavorato con produttori indipendenti ma non ho trovato nessuno per questo film (il costo si è aggirato intorno ai 160 milioni di dollari, circa 144 milioni di euro, ndr). Solo Netflix ha accettato di finanziare interamente il progetto lasciandomi totale libertà creativa. In cambio ha voluto la possibilità di programmarlo in streaming in contemporanea con la distribuzione nelle sale. Mi è sembrato uno scambio equo. Soprattutto se penso che alcuni miei film, come Re per una notte, sono stati al cinema due settimane e poi sono spariti. Certo, l’ideale è vedere i film al cinema, ma prima bisogna farli per poterli vedere.
L’importanza della narrazione
Ma proviamo a capire l’importanza di questo film analizzando come esso si inserisce nella poetica di Martin Scorsese.
È caratteristico il fatto che Scorsese dopo una parabola che potremmo definire ascetico-religiosa che va da L’ultima tentazione di Cristo a Silence, torni a girare un film gangster. Si tratta di un ritorno all’origine che però, quasi come una Aufhebung hegeliana, porta con sé tutte le esperienze intermedie a questo ritorno, che preparano questo ritorno stesso e insieme ne inaugurano la realizzazione in una sintesi. Era il 1990 quando usciva nelle sale Goodfellas, un film gangster figlio del suo tempo dai toni del drama, atmosfera che vediamo in The Irishman trasformata ed evoluta, sebbene conservata nel suo equilibrio narrativo ritmato e nel suo intento empatico. La voce narrante, proverbiale espediente narrativo, topos stilistico delle opere di Martin Scorsese, è sempre volta a instaurare una relazione concreta, quasi amichevole, se non a tratti fraterna, con lo spettatore. La caratteristica della voce narrante, del narratore omodiegetico, è la franchezza e la comunicazione diretta. L’onestà con cui viene comunicata al fruitore la vicenda del contenuto narrato è funzionale alla comprensione profonda degli sfondi sociali, culturali e storici in cui la vicenda stessa prende forma.
Film didattici
Tipico del Cinema di Martin Scorsese è l’abilita di riuscire a restituire al fruitore uno spaccato di un intera epoca attraverso la rappresentazione della storia personale di un personaggio. Così accade in Goodfellas, in cui il narratore è anche il protagonista, in Gangs of New York e nel più recente The Wolf of Wall Street.
Si evince facilmente dalla visione dei film di Scorsese quanto egli vada in profondità nelle analisi storico-sociali e di quanto appaia naturale la comprensione che di essi restituisce allo spettatore. Lo scopo del cinema di Scorsese è comunicare un contenuto complesso, articolato e dettagliato, fatto di sfumature psicologiche, contesti storico-sociali e di concetti filosofici che nella descrizione dell’antropologia dei personaggi appaiono tanto abbaglianti e avvincenti, quanto semplici e universali. Il cinema di Martin Scorsese si presenta perciò come un grande affresco culturale, una sorta di Cappella Sistina della settima arte in cui i dettagli sono tantissimi, ma riconoscibili, e miscelati nella costruzione di un’ opera che descriva qualcosa di importante. Se si vuole comprendere la mafia americana, l’universo gangster degli anni ’60 e ’70, lo si trova rappresentato in modo sopraffino in Goodfellas e in Casinò, film che si presentano come contributi didattici anziché come prodotti di intrattenimento e di spettacolo. La proverbiale capacità del regista di analizzare forma un connubio perfetto con la capacità di arrivare e di far comprendere al fruitore.
Leggi anche:
«The Irishman», l’intima rimpatriata di Scorsese
Il primo gangster film di Martin Scorsese è anche la pellicola con la quale il regista conosce il successo: Mean Streets del 1973. È in questo film che il regista dà prova della sua capacità di analizzare gli sfondi sociali e simbolici, dei contesti di appartenenza delle persone, descrivendo una Little Italy con l’abilità di un antropologo. Da subito Scorsese si presenta come un fenomenologo, lasciando cioè che le sue sceneggiature raccontino dei fenomeni reali in modo che essi si automanifestino di per sé stessi per come essi sono, senza sofismi e orpelli intellettuali che rendano opaco ed enigmatico il fenomeno invece di restituirlo in modo chiaro e schietto. La schiettezza nella descrizione di fenomeni reali è un atteggiamento registico che Scorsese eredita dalla Nouvelle Vauge e dal cinema italiano di Federico Fellini con cui si è formato. La cura estetica dei dettagli non è che un riflesso (e quindi una conseguenza) di uno stile fenomenologico: la realtà è dettagliata e articolata e il cinema di Scorsese la fa autorappresentare per come essa di per sé stessa è.
Le novità nella poetica di Scorsese
Il topos letterario del racconto nei film di Martin Scorsese solitamente definisce una linea temporale in due direzioni, dal passato della storia al presente della narrazione e viceversa. Questo andamento sincronico e diacronico, da cui emerge una trama fitta e intricata (contrassegno dei gangster movies del regista) è presente anche in The Irishman, ne deriva quindi un impianto narrativo di flashback impliciti ed espliciti.
Come afferma Scorsese nell’intervista sopraccitata, la vera protagonista del film, questa volta, non è la narrazione della condizione storico-sociale e personale dei personaggi, bensì lo scorrere del tempo e la morte, e dunque il rapporto che i personaggi, e più in generale tutti noi, abbiamo con tale fenomeno e con l’andarsene di scena. Dice Scorsese :
Quando Bob (De Niro) e io abbiamo deciso di raccontare questa storia, ho pensato che avremmo potuto imparare qualcosa anche alla nostra età — abbiamo tutti e due 76 anni — e accettare l’idea della mortalità, ammesso che sia possibile farlo. Imparare a vivere con questa consapevolezza.
I personaggi di The irishman sembrano descrivere una fenomenologia del morire, oltre alla ridondante e ovvia violenza della mafia, e oltre a un intreccio formato su dettagli e colpi di scena (tratti salienti del cinema di Scorsese insieme a un umorismo grottesco), questa volta c’è qualcosa in più, e cioè il racconto crepuscolare del declino e dell’eredità, della fine, dell’ultimo colpo di coda della vita, il quale non può essere altrimenti che invischiato in una convivenza con la morte e con l’oblio.
La novità assoluta nel cinema di Martin Scorsese in The Irishman è la presa di coscienza esplicita del fatto che il suo cinema intende mettere in primo piano le vicende del personaggio in quanto uomo, le sue emozioni, i suoi dubbi e le sue ambizioni, nonché la sua lotta per la sopravvivenza, elemento già rappresentato in Gangs of new york. Quindi, potremmo dire, come The Wolf of Wall Street, The Irishman è un film-vita, su cui si innestano contorni storici e contesti sociali. Le vicende storiche, che nel caso di The Irishman coprono l’arco di quarant’anni, non sono al centro dell’affresco cinematografico e della narrazione, ma, come in Gangs of new york, fanno da sfondo alle vicende dei personaggi e del protagonista. Nel film si parla di Richard Nixon, dei Kennedy, delle vicende cubane, ma
restano sullo sfondo. Ci spiegano dove andava l’America allora e ci ricordano che Frank Sheeran giocava su una scacchiera dove altri comandano. Ma a me non interessavano le idee di Frank sulla politica americana: io volevo raccontare solo le sue emozioni di uomo.
The Irishman è quindi un gangster movie di Scorsese, ma è diverso da tutti gli altri film di questo genere fatti dal regista per le sua pretesa esistenziale di descrivere in modo microscopico i sentimenti e le reazioni emotive a cui sono esposte le decisioni prese dai personaggi, ma soprattutto per la forza con cui viene rappresentato il conflitto morale e la crisi di identità del personaggio, per il problema dell’epilogo della vita e del testamento biografico che ognuno di noi lascia in eredità. Il rimpianto per il tradimento del suo amico, porta Frank Sheeran in una sorta di stasi ovattata delle emozioni, di depressione, che è ingenerata anche dall’età; porta ad un’atmosfera di horror vacui per il nulla della fine, che sostiene e trasmette perfettamente allo spettatore la tematica dell’inesorabile scorrere del tempo.
È in questo minuzioso modo in cui l’antropologia e la psicologia dei personaggi viene portata a connubio con questioni esistenziali in cui le vicende storiche reali fanno da cornice che possiamo vedere il ritorno all’origine come una sintesi del cinema di Martin Scorsese, e quindi The Irishman come un testamento registico e intellettuale del regista.