C’è qualcosa di terribile nella realtà, e io non so cos’è. Nessuno me lo dice.
Una donna cammina insieme a suo figlio nella nebbia. È l’inizio, ma è anche la fine. Immagini di uno stabilimento chimico e di fumo, non messe a fuoco, come visioni di un miope, accompagnate da un rumore sordo e da una voce. È il 1964. È così che inizia Il deserto rosso, primo lungometraggio a colori di Michelangelo Antonioni, per la prima volta nelle sale a ottobre 1964, successivo, dunque, alla Trilogia dell’Incomunicabilità – composta da L’avventura (1960), La notte (1961), L’eclisse (1962) – ma in realtà quasi appartenente ad essa, poiché molteplici ed evidenti sono le relazioni con i precedenti film.
A dominare sono ancora una volta due condizioni tipiche degli anni del Boom, l’alienazione e l’incomunicabilità, ma se L’avventura è ambientato in Sicilia, La notte a Milano e L’eclisse a Roma, a fare da contorno allo sprofondamento emotivo del personaggio di Giuliana ne Il deserto rosso è, invece, la città di Ravenna, di cui la macchina da presa mostra un volto nebbioso e profondamente industriale.
Giuliana e Sylvia Plath, storie di una lacerazione
Il deserto rosso è Giuliana. Interpretata da Monica Vitti, Giuliana è il tipico personaggio femminile dei film di Antonioni: un personaggio che perde i rapporti con gli altri, con il mondo, con sé, che – dopo un tentativo di suicidio – fa di tutto per reinserirsi nella realtà ma non ci riesce, perché ha paura “delle strade, delle fabbriche, della gente, dei colori, di tutto”; che non riesce a guardare il mare perché altrimenti tutto quello che accade sulla terra non le interessa più, che si domanda se esista “un posto dove si va a stare bene” e alla fine, pur essendo consapevole dell’impossibilità di guarire, dice a se stessa: “devo pensare che tutto quello che mi capita è la mia vita”.
Gli altri – di cui Giuliana ha bisogno, ma che sono inafferrabili – sono solo presenze fugaci, personaggi assenti o nascosti; dal marito Ugo la separa una distanza interiore che si estende fino a concretizzarsi nel tradimento messo in atto con l’unico uomo che tenta di comprenderla, Corrado, la punta di un triangolo amoroso che molto ha in comune con quello formato da Anna, Sandro e Claudia ne L’avventura; il figlio Valerio, che le cammina accanto, è un prolungamento della sua disarmonia con il mondo. Si direbbe che gli unici dialoghi di Il deserto rosso appartengano a Giuliana, ma le sue parole spesso non sono rivolte a nessuno: sono rivolte a se stessa, che guarda al di là della macchina da presa.
“La vita non è proprio altro che solitudine” – scrive negli stessi anni nel suo diario Sylvia Plath -, “una solitudine che parte da un punto indefinito dell’io: come una malattia del sangue che si diffonde in tutto il corpo sicché non si può localizzarne il focolaio, l’origine del contagio”, e Giuliana lo sa bene. Cammina in fretta, si guarda attorno debolmente, chiude gli occhi solo per un secondo e poi scappa. I suoi passi hanno la forza di cento violini, il colore acro del temporale, l’odore destabilizzante del cielo.
“Se io dovessi partire per non tornare più, porterei via anche te”, dice Giuliana a Corrado in Il deserto rosso, ma sa bene che non è così, perché – come scrive ancora Sylvia Plath – “quando infine trovi qualcuno in cui senti di poter riversare la tua anima, ti blocchi di colpo davanti alle tue stesse parole – le hai tenute dentro così a lungo, contratte nel buio, che sono ormai sbiadite, brutte, banali e fiacche”.
Da Celeste e verde a Il deserto rosso, l’uso del colore in Antonioni
Ho cercato di sfruttare ogni minima risorsa narrativa del colore in modo che entrasse in armonia con lo spirito di ogni scena, di ogni sequenza. (…) Non ho mai pensato: ‘Adesso metto un blu accanto a un marrone’. Ho voluto che l’erba attorno al casotto sul canale fosse colorata per accentuare quel senso di desolazione, di morte. Bisognava rendere una certa verità del paesaggio.
Non è un caso che, proprio con Il deserto rosso, Carlo di Palma abbia vinto il Nastro d’argento alla migliore fotografia. Eppure inizialmente il titolo del primo lungometraggio a colori di Antonioni sarebbe dovuto essere Celeste e verde; due colori definiti da Giuliana “freddi, che non dovrebbero disturbare”, con cui dipingere le pareti e il soffitto della stanza di un negozio al quale vorrebbe dar vita. Verde è anche il colore del cappotto indossato da Giuliana nelle prime inquadrature del film, rosso è il colore della stanza in cui Giuliana, Ugo e uomini e donne borghesi si ritrovano durante una festa – esempio ulteriore delle tante feste, borghesi e non, che affollano i film di Antonioni, Fellini, Bertolucci, Visconti.
E se il bianco è il colore delle pareti labirintiche, asfissianti e asettiche a cui la donna si aggrappa per non scivolare nel vuoto, rosa è infine il colore della spiaggia in cui è ambientata la favola che Giuliana racconta a Valerio, la spiaggia di Budelli, in Sardagna, unico luogo non alienante di Il deserto rosso.
Il deserto rosso è un luogo che non esiste, o forse sì; forse è il deserto dei sentimenti, della vita, del rapporto con gli altri.
Antonioni e il viaggio dello sguardo secondo Pasolini
Quando Pasolini va al cinema a vedere Il deserto rosso, ha già alle spalle l’esperienza di due visioni – quella de La notte e quella de L’eclisse – che non l’hanno convinto; si mostra piuttosto prevenuto, è già consapevole che troverà i dialoghi esageratamente goffi, imbarazzanti, ridicoli, eppure ciò che lo affascina è il montaggio, in particolar modo due diverse operazioni di montaggio applicate da Antonioni: “il succedersi di due inquadrature che rappresentano la stessa situazione, prima da vicino, poi un po’ più da lontano, o prima frontalmente e poi un po’ obliquamente” e “il far entrare e uscire i personaggi dall’inquadratura”.
Un anno dopo l’uscita di Il deserto rosso, nel 1965, sulla rivista Vie Nuove, Pasolini difende il primo lungometraggio a colori di Antonioni, scrivendo che la vera novità del film rispetto ai precedenti consiste nel fatto che per la prima volta Antonioni “non appiccica la sua visione del mondo a un contenuto vagamente sociologico (la nevrosi da alienazione), ma guarda il mondo attraverso gli occhi di una malata, identificando la sua visione delirante di esteticismo con la visione di una nevrotica”.
Gli infiniti finali dei film di Antonioni
Finali sospesi, finali infiniti. Josè Moure li definisce “endless endings”, perché guardare i film di Antonioni significa sapere sin dall’inizio che non ci sarà una fine. Ne L’avventura Claudia si avvicina a Sandro, seduto su una panchina, e allunga una mano sulla sua spalla. Ne La notte Lidia e Giovanni ricevono la notizia della morte di un amico e Lidia legge una vecchia lettera scritta da Giovanni molti anni prima. Ne L’eclisse Vittoria e Piero si danno appuntamento, ma nessuno dei due si presenta: l’uomo scompare, non conta più nulla, diventa oggetto tra gli oggetti, in un paesaggio da fine del mondo.
Ne Il deserto rosso Giuliana accompagna il figlio Valerio a scuola e, passando davanti a uno stabilimento chimico, attratto dal fumo giallo di una ciminiera, il bambino chiede alla madre cosa sia: è veleno, ma “ormai gli uccellini lo sanno e non ci passano più”.
Nel 1985, 21 anni dopo Il deserto rosso, Antonioni scriverà:
Un film con un inizio, ma forse senza una fine. Mi sono spesso chiesto se le storie, siano esse letterarie, teatrali o cinematografiche, debbano sempre avere una fine. Una storia che si chiude in se stessa corre il rischio di morire se un’altra dimensione non è prevista, se non si permette che il nostro tempo si estenda all’esterno di dove siamo, noi che siamo i protagonisti di tutte le storie. Dove niente finisce.
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