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il drago di mio padre NPC Magazine

Il Drago di mio Padre, l’Isola Selvaggia come antidoto alla realtà scadente

8 minuti di lettura

Ispirato all’omonimo classico della letteratura americana per bambini, Il Drago di Mio Padre è disponibile su Netflix a partire dall’11 Novembre. Dopo la candidatura agli Oscar nel 2020 per il meraviglioso Wolfwalkers – Il popolo dei lupi, Cartoon Saloon torna protagonista con il suo quinto lungometraggio all’attivo.

Il film, diretto da Nora Twomey (I racconti di Parvana – The Breadwinner) e sceneggiato da Meg LeFauve (Inside Out), può contare su un cast vocale d’eccezione, dove, oltre a Jacob Tremblay e Gaten Matarazzo, figurano attrici del calibro di Whoopi Goldberg, Rita Moreno e Dianne Wiest.

Abbandonato il folklore irlandese e il drammatico conservatorismo religioso afghano, con Il Drago di Mio Padre lo studio d’animazione irlandese realizza sicuramente il suo film più convenzionale e accessibile, dando vita ad una storia d’amicizia singolare in un coming of age orientato ad un un pubblico più giovane.

La realtà è scadente

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Elmer vive con la madre Dela in una piccola cittadina. Insieme gestiscono un emporio, ma lo spettro della recessione si farà avanti furtivo nelle loro vite, fino a obbligarli a trasferirsi in una grande città – Nevergreen City – inseguendo un sempre più evanescente nuovo inizio.

A volte però i bambini devono essere protetti dalla realtà, perchè “la realtà è scadente”, lo sa Fabietto di È Stata la Mano di Dio e lo sa anche Dela, che per alleviare la sofferenza del figlio promette che tutto tornerà presto alla normalità: sarà sufficiente fare qualche sacrificio e mettere da parte un po’ di risparmi, cosicché saranno in grado di acquistare un nuovo negozio.

Quando tutto ciò che rimane è un barattolo vuoto da riempire con i propri sogni, Elmer comprende però quanto la verità sappia essere crudele, così come la vita, e trovandosi faccia a faccia con quella realtà da cui la madre cercava di proteggerlo, sarà costretto a diventare un uomo, abbandonando la spensieratezza e cercando lui stesso di racimolare i soldi di cui avrebbero bisogno.

Il potere della fantasia e della paura

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Dopo una prima parte saldamente ancorata alla realtà, Il Drago di mio Padre sprigiona il potere della fantasia, e l’avventura di Elmer ha inizio quando un gatto parlante afferma di avere una soluzione al suo problema.

Su un’isola non molto distante – Isola Selvaggia – si trova infatti un drago, tenuto imprigionato e costretto ad evitare, con tutte le proprie forze, che quest’ultima sprofondi in mare. Determinato a salvarlo e a portarlo sulla terraferma, dove tutti pagherebbero per vederlo, Elmer salperà sul dorso di una balena.

Infantile, goffo e decisamente poco temerario – metafora di quell’infanzia che Elmer si sta lasciando alle spalle – il drago che incontra è ben diverso dalle sue aspettative, e la situazione che sta vivendo rappresenta in un certo senso una similitudine con il suo vissuto. Boris – così si chiama – deve infatti salvare l’isola per poter diventare “adulto” e tornare finalmente dalla propria famiglia.

La relazione che si instaurerà tra i due, sarà parallela a quella di Elmer con la madre, tanto che, proprio come lei, cercherà di proteggere il suo amato drago dalla realtà, di fargli da scudo, omettendo alcune verità e fingendosi invulnerabile, proprio come i genitori fanno con i figli.

“Tu non hai mai paura?” chiede Boris a Elmer.

“Io ho sempre paura” rivelerà più tardi il bambino

Perché non c’è nessuna vergogna nella paura. Piuttosto – a volte – può essere un superpotere, ed è bene ricordarlo.

Il drago di mio padre, tra citazionismo ed empatia

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Il Drago di mio Padre è, più di ogni altra cosa, una storia d’amicizia incredibile, così come è incredibile l’animazione 2D che Cartoon Saloon porta sui piccoli e grandi schermi di tutto il mondo dal 2009, donandoci immancabilmente quella sensazione di vederci scorrere davanti agli occhi le pagine di un libro illustrato.

Dopo il tratto barocco di Wolfwalkers, lo studio d’animazione irlandese realizza uno dei film più puliti della sua intera filmografia, ma anche quello che, più di ogni altro, vive di contaminazioni

Guardando Elmer e il suo cappotto giallo fuggire tra i vicoli di Nevergreen, è impossibile non pensare a Little Nightmares – capolavoro d’animazione videoludica -, o sentire l’eco di Hakuna Matata vedendo gli sfondi animati susseguirsi rapidamente alle spalle dei protagonisti. Lo è altrettanto, guardando i cieli stellati riflessi nel mare e la stupefacente natura di Isola Selvaggia, non tornare con la mente al 2012, quando, con Vita di Pi, Ang Lee alzava l’Oscar davanti a un certo Steven Spielberg.

Sul finale, poi, c’è anche un momento tra Elmer e Boris dove la penna di Meg LeFauve diventa immediatamente riconoscibile, facendo riaffiorare l’abbandono di Bing Bong da parte di Riley.

Ma a proposito di Inside Out, ne Il Drago di mio Padre la sceneggiatrice sembra voler aggiungere un’emozione a quelle cinque che vivono nella mente di Riley: oltre a Gioia, Disgusto, Paura, Rabbia e Tristezza, il sentimento più forte nel cuore di Elmer è Empatia.

Non ci sono veri e propri antagonisti, ma ci sono personaggi che compiono azioni sbagliate seguendo ideali più o meno nobili. Elmer lo capisce, e perdona tutti: la madre che cercava soltanto di proteggerlo, l’anziana e scorbutica padrona di casa, i bambini che gli avevano sottratto quell’unico penny nel barattolo e il gorilla che teneva imprigionato Boris per salvare l’isola.

È questo il messaggio più importante de Il Drago di mio Padre, un film semplice, realizzato principalmente per un pubblico molto giovane, ma da cui hanno tanto da imparare anche gli adulti.


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Sono Filippo, ho 22 anni e la mia passione per il cinema inizia in tenera età, quando divorando le videocassette de Il Re Leone, Jurassic Park e Spider-Man 2, ho compreso quanto quelle immagini che scorrevano sullo schermo, sapessero scaldarmi il cuore, donandomi, in termini di emozioni, qualcosa che pensavo fosse irraggiungibile. Si dice che le prime volte siano indimenticabili. La mia al Festival di Venezia lo è stata sicuramente, perché è da quel momento che, finalmente, mi sento vivo.

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