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A Different Man, illusione e paradosso dell’identità

A Different Man, illusione e paradosso dell’identità

6 minuti di lettura

Disponibile nelle sale italiane dal 20 marzo, A Different Man è il secondo lungometraggio di Aaron Schimberg che, 6 anni dopo l’esordio con Chained for Life, riscopre e rielabora alcuni degli elementi a lui più cari, tra cui appunto le deformità dei volti, nuovamente al centro della narrazione. Presentato al Sundance Film Festival e al Festival di Berlino, dove Sebastian Stan si è aggiudicato l’Orso d’argento per la miglior interpretazione, vincendo successivamente anche il Golden Globe nella medesima categoria, il film vede inoltre la partecipazione di Renate Reinsve e Adam Pearson.

È complicato collocare A Different Man all’interno di un genere cinematografico ben definito, perché Aaron Schimberg passa dal body horror, al thriller, fino ad approcciarsi a una commedia grottesca e surreale. La narrazione non gira esclusivamente intorno a quel concetto di freak ripreso più volte nella storia del cinema. A Different Man non è The Elephant Man di David Lynch – o almeno lo è soltanto in parte. 

La ricerca della propria identità a fronte di una disumanizzazione perpetrata dalla società nei confronti del protagonista, è chiaramente un aspetto fondamentale della pellicola, ma Schimberg, seppur con una certa superficialità – soprattutto sul finale -, inserisce una rilettura in chiave metacinematografica sul ruolo dell’attore nella nostra contemporaneità. Un film ambiguo, che mantiene comunque un certo fascino.

A Different Man: Edward contro Edward

Renate Reinsve e Sebastian Stan in A Different Man

Edward è un uomo affetto da neurofibromatosi, una malattia che gli ha deformato completamente il volto, portandolo a condurre una vita solitaria per paura degli sguardi e dei giudizi altrui. Qualcosa cambia però quando Ingrid, un’aspirante drammaturga, si trasferisce nell’appartamento accanto al suo. La donna sembra essere l’unica a trattarlo normalmente, a vedere l’uomo dietro quel volto che per tutti gli altri rappresenta soltanto un motivo di scherno o di disgusto. 

L’amicizia che nascerà non farà altro che aumentare il desiderio di Edward di vivere finalmente una vita “normale”, e quando gli verrà proposta la possibilità di sottoporsi a una cura sperimentale, guarirà effettivamente dalla sua malattia, fingendo la propria morte e assumendo una nuova identità

Scoprirà soltanto successivamente che Ingrid ha scritto una pièce ispirata al loro vissuto, e vorrà parteciparvi a tutti i costi, tornando a vestire i suoi panni. Da quel momento Edward inizierà a riflettere profondamente rispetto alla sua nuova vita, e l’incontro con Oswald, un uomo affetto da neurofibromatosi ma completamente a suo agio con il proprio corpo, lo porterà a interrogarsi su sé stesso.

A Different Man è infatti più di ogni altra cosa una riflessione sul concetto d’identità. Edward ha inseguito per tutta la vita un aspetto diverso, un aspetto “normale”, e quando è riuscito ad abbracciare quella tanto desiderata normalità, si è trovato comunque a fare i conti con l’eco di un passato traumatico, che non può essere cancellato fingendo semplicemente che non sia mai esistito. 

Metacinema e dilemmi etici

Edward e Oswald in A Different Man

All’interno della narrazione di A Different Man, è fondamentale la dicotomia tra Edward e Oswald (Adam Pearson), che si instaura nel momento in cui quest’ultimo entra in scena. Il comportamento di Oswald, la sua vita assolutamente normale nonostante la malattia, sono la dimostrazione che non si può cercare al di fuori ciò che non si ha dentro di noi, e questo conduce nuovamente Edward in quell’abisso di incertezze che sembrava essersi lasciato alle spalle. Perché l’apparenza rimane effimera, e non si possono nascondere i propri traumi dietro un nuovo volto, oppure una maschera, come polvere sotto il tappeto.

Il rapporto tra i due personaggi permette inoltre, come abbiamo sottolineato inizialmente, di portare avanti un’analisi metacinematografica intorno al ruolo dell’attore, in relazione anche a una riflessione riguardo al politicamente corretto e agli aspetti etici che ne derivano. 

A Different Man, che tra le altre cose è anche un gioco di omaggi – quello a David Lynch e Mulholland Drive e ad Arancia Meccanica di Stanley Kubrick sono i più evidenti -, mette lo spettatore di fronte a questi dilemmi, che avrebbero meritato forse di essere trattati con una sensibilità diversa. Schimberg, soprattutto sul finale, sembra volerli inserire invece all’interno di un contesto inutilmente confusionario, in cui tutto diventa forzatamente grottesco e surreale, edulcorando in parte la profondità di una critica sociale comunque estremamente interessante. 

La sensazione è che A Different Man funzioni decisamente meglio come riflessione intorno al concetto di identità, e in effetti la frase finale pronunciata da Oswald è realmente la perfetta chiusura del cerchio di quella narrazione: “Amico mio, sei sempre lo stesso”.


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Sono Filippo, ho 22 anni e la mia passione per il cinema inizia in tenera età, quando divorando le videocassette de Il Re Leone, Jurassic Park e Spider-Man 2, ho compreso quanto quelle immagini che scorrevano sullo schermo, sapessero scaldarmi il cuore, donandomi, in termini di emozioni, qualcosa che pensavo fosse irraggiungibile. Si dice che le prime volte siano indimenticabili. La mia al Festival di Venezia lo è stata sicuramente, perché è da quel momento che, finalmente, mi sento vivo.

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