Jeanne Dielman, 23, quai du Commerce, 1080 Bruxelles è il film che ha scatenato l’ira di critici e amatori del cinema un paio di anni fa, quando è stato scelto come il miglior film di sempre dalla classifica di Sight & Sound del 2022. Da allora è diventato impossibile parlare del film come opera a sé stante, cercando di ignorare tutti i paratesti che vi si sono costruiti intorno. Ma sospendiamo per un attimo tutte le congetture create attorno al film e guardiamolo con occhi nuovi. Cerchiamo di calarci nei panni di Jeanne, così da capire perchè questo film sia stato una pietra miliare del cinema e perchè tutt’oggi abbia ancora tanto da dire.
La ridondanza nauseante di Jeanne Dielman, 23, quai du Commerce, 1080 Bruxelles
Jeanne Dielman è uno slice of life di una casalinga. Il film mostra in maniera minuziosa la vita della protagonista attraverso tre giorni. Jeanne Dielman è lento e si prende tutto il suo tempo per mostrare la vita quasi monasteriale della protagonista, passata tra la cura della casa e quella del figlio. Gli unici momenti che creano scalpore sono i fugaci incontri di Jeanne con alcuni uomini per cui si prostituisce, così da sostenere l’economia domestica. Attraverso la messa in scena e la lenta narrazione, Jeanne Dielman mostra tutta l’esasperazione della vita femminile di una normale donna pre-sessantotto.
Oltre a seguire Jeanne nella quotidianità più ordinaria, però, arriviamo a un punto chiave. Una situazione che in un altro film sarebbe stato un semplice inconveniente qua diventa il perno del cambiamento nella vita della protagonista. Un giorno come un altro la casalinga sbaglia a cuocere le patate e le deve buttare via. Non c’è una vera logica sul perchè questo evento abbia avuto un effetto così forte su Jeanne, ma ciò equivale alla sua uscita dalla caverna di Platone, la visione della luce per la prima volta.

Nella sequenza successiva cerca di riparare al suo errore comprando delle nuove patate. Mentre le pela il suo volto è calmo e composto, come durante il resto del film. Ma le sue mani raccontano un altra storia: Jeanne taglia le patate in modo folle, carico di rabbia passiva. Dopodichè sbaglia a lavare i piatti; prova a farsi un caffelatte ma continua a buttarlo via, come se il sapore fosse sbagliato. Ma non sono il latte, il caffè o lo zucchero a risultare diversi dal solito: è Jeanne ad essere cambiata. Le cose non potranno più essere come prima e lei non tornerà ad essere la solita sé stessa, come vedremo in maniera molto più drastica nel finale.
Lo spazio femminile ritagliato da Chantal Akerman
Il discorso fatto da Jeanne Dielman è coerente, forse il punto di arrivo, della poetica della sua regista, Chantal Akerman. Femminista, attivista queer e una delle registe donne più importanti del tempo insieme ad Agnès Varda, Akerman è il punto di riferimento ancora oggi di chi vuole rappresentare il corpo femminile nel cinema. Si sono fatti tanti discorsi sul male gaze, e Akerman è sicuramente responsabile di aver portato avanti l’altro lato della medaglia, a lungo oscurato, il female gaze.
Già in Je, tu, il, elle, Akerman ribalta la modalità consueta di inquadrare le donne. La protagonista non è una femme fatale o una vergine innocente, è una donna squarciata tra l’espressione della sua femminilità, forzata dal mondo partiarcale in cui vive, e la sua queerness esplosiva, che però non viene mai sessualizzata. Infatti, piuttosto che inquadrare il rapporto tra due donne come oggetto di piacere maschile, Akerman mostra i corpi con furia e frenesia, emozioni condivise dalle due donne. La struggente sequenza finale del film rivela due anime spezzate che cercano l’unità in un mondo frammentato.

La protagonista di Je, tu, il, elle (Akerman stessa) non è ridotto alla superficialità fisica, nonostante parli poco nel film e passi molto tempo sullo schermo ad essere inquadrata e basta, senza alcun climax drammatico. Lo spazio che Akerman ritaglia alle sue protagoniste è fuori dallo sguardo patriarcale: Julie è sola in una stanza ed è libera, nel bene e nel male, di essere sè stessa. La donna non viene mostrata come moglie o madre, bensì in tutte le sue sfaccettature, anche negative: le nevrosi, le sofferenze, i gesti patetici e assurdi dettati semplicemente dalla solitudine, dall’esistenza in quanto essere umano.
Jeanne Dielman, un corpo in uno spazio fisico e mediatico

Nei film di Chantal Akerman, i corpi femminili non sono quindi oggettificati, ma occupano uno spazio in maniera attiva e concreta. In Jeanne Dielman, quando la protagonista incontra i suoi clienti, la macchina da presa la inquadra in un piano americano, con la testa tagliata fuori campo. È come se le uniche parti del suo corpo viste dall’uomo, e quindi dalla cinepresa, siano quelle erogene: il seno, il ventre, la vagina. Il resto del tempo, invece, quando Jeanne abita le quattro mura della sua casa, è inquadrata a figura intera. Nello spazio domestico la protagonista può esistere pienamente, abitandolo con tutto il suo corpo, con tutta sé stessa.
Akerman va ancora oltre: in alcune scene la camera rimane fissa, inquadrando una porta aperta che conduce a un’altra stanza dove Jeanne si muove in lontananza. La donna si allontana visivamente da noi spettatori, si rimpicciolisce, sembra perdere i tratti umani fino a diventare un elemento qualsiasi della cucina o della sala da pranzo. È come se si trasformasse in un oggetto tra gli oggetti, un soprammobile, un utensile. Così la società vede Jeanne, e così ha visto per lungo tempo le donne: come qualcosa di meno di un essere umano, un mero accessorio.

Jeanne Dielman, 23, quai du Commerce, 1080 Bruxelles dura tre ore e venti minuti. Per un film composto da inquadrature fisse e pochissimi dialoghi, può sembrare un tempo difficile da affrontare. Ma è proprio la percezione del tempo a essere parte centrale dell’esperienza. Noi osserviamo tre giorni della vita di Jeanne: pomeriggi in cucina, pulizie, momenti di vuoto riempiti da un libro o da gesti meccanici. Una routine ridondante, che sembra perpetrare nella sua austerità. E se noi spettatori possiamo interrompere la visione, annoiarci, uscire dalla sala o spegnere lo schermo, Jeanne resta lì. Continua ad abitare quella quotidianità, forse per sempre, come in un eterno ritorno.
Se lo scopo del cinema è “essere una macchina che genera empatia“, allora Jeanne Dielman ci dona con cura la possibilità di sperimentare, nella sua pienezza, l’esperienza di un’altra persona. Dopo aver visto questo film, ogni volta che compiremo un gesto quotidiano – lavare i piatti, mettere su un caffè – sarà impossibile non pensare a Jeanne.

Jeanne Dielman, 23, quai du Commerce, 1080 Bruxelles supera il test del tempo perchè sono tante, forse troppe, le donne che vivono attualmente nella condizione della protagonista. Rimane dunque viva la dedica del cinema di Chantal Akerman a tutte le persone che, come Jeanne Dielman, vivono in un limbo domestico, costrette a sopravvivere mentre il mondo le dimentica. Un film sempre rilevante non per lo scalpore che genera il suo posto in una classifica, ma per le verità necessarie che consegna allo spettatore con cura e comprensione.
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