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La battaglia di Algeri

«La battaglia di Algeri», Cinema reale e Vero storico

7 minuti di lettura

19/11/1919. Una data così ricorsiva indica immediatamente che di banale o casuale nella vita di Gilberto Pontecorvo, per tutti detto Gillo, non esiste nulla. Per complicare il quadro, essere ebreo negli anni ’30 in Italia non è affatto facile; auto-esiliarsi a Parigi per sfuggire alle persecuzioni razziali. Essere partigiano, poi…  Inevitabile dunque l’impegno: Partito comunista italiano. Parigi non è solo meta di fuga, ma diventa luogo di scoperta di una cultura intellettuale che in nessun altro luogo avrebbe potuto trovare (lui, ex studente universitario di chimica, proprio non era interessato alla laurea). Di qui l’inizio e l’avvio nel mondo del cinema. Di un cinema che deve portare i segni di una vita che ha fatto della presenza intellettuale e partecipazione civile una stigmate.

Gillo Pontecorvo

1964, in una data indifferente: giunge in italia Jacef Saadi, capo militare della FLN (Front de Libération Nationale), a due anni dagli accordi di Évian, negoziati nei quali l’Algeria trova la propria indipendenza. Jacef cerca un regista italiano (non può di certo appellarsi al cinema francese) per creare un film che racconti la lotta armata di liberazione del popolo algerino. Gillo e lo sceneggiatore Franco Solinas, che già lavoravano su un’idea simile, decidono di imbarcarsi per questo viaggio che segnerà la loro carriera. Compiono ricerche sul campo per sei mesi, nel cuore di Algeri, per poi iniziare a lavorare direttamente sul film. Quattro mesi, dall’estate del ’65, di lavorazione con una troupe di tecnici locali inesperti guidati dai pochi italiani. Gli esiti non sono male: Leone d’oro a Venezia ’66, nomination Miglior film straniero Oscar ’67, e nomination Oscar Migliore regia e Miglior sceneggiatura originale agli Oscar ’69 (dopo che La battaglia di Algeri, inevitabilmente, era sbarcato e distribuito in suolo americano). 

Perché tutto questo tripudio?

«La battaglia di Algeri» – Trama

1957: nella Qasba il colonnello Mathieu (Jean Martin), comandante dei paracadutisti francesi, irrompe in un appartamento dove è nascosto, dentro una nicchia creata ad hoc in una parete, il rivoluzionario algerino Ali La Pointe (Brahim Haggiag) insieme ad un bambino, una donna e un compagno di lotta. Mentre viene preparata una bomba per mandare all’aria la casa, parte un lungo flashback di Ali sugli ultimi tre anni. Inizia così il racconto con l’arresto, la scarcerazione, l’arruolamento nel FLN; da qui la presentazione delle diverse azioni terroristiche del Front nei confronti dei PiedNoir, i francesi d’Algeria, e la lenta ascesa di Ali nei ranghi dell’organizzazione.

La battaglia di Algeri

La svolta: 10 gennaio 1957, arrivano i paracadutisti francesi guidati da Mathieu, esperto militare con un passato nella resistenza francese e nella guerra d’Indocina. Mediante metodi al limite della legalità, in pochi mesi FLN viene destrutturata e i suoi componenti arrestati. Anche i capi dell’organizzazione vengono scoperti e ultimo a rimanere libero è proprio Ali, ma qui si chiude il flashback…

La dittatura della verità

Attori non professionisti, ad esclusione dell’interprete del colonnello Mathieu. Il bianco e nero per necessità espressiva. Anche Jacef Saadi lavora ed interpreta se stesso, mentre il prigioniero torturato ad inizio film è un ladro che al termine delle riprese deve tornare in cella. Più che di un film, si potrebbe parlare di un documentario, di un report televisivo: la categoria di cinema pare essere rimossa in questo racconto che desidera essere il più aderente possibile alla realtà dei fatti.

La battaglia di Algeri

A differenza di alcuni film del Neorealismo, corrente nella quale si potrebbe inserire il regista, ne La battaglia di Algeri non si dà nessun addolcimento della realtà. La verità storica deve essere rappresentata senza falsificazione o alterazione. La mano poietica del regista, dove essa crea veramente l’arte e non la semplice documentazione, si dà primariamente nelle scelte sonore: a firmare le musiche è il grande Ennio Morricone, che riesce a riempire di suggestione alcune scene drammatiche, o a sostituire completamente il dialogo; le percussioni sottolineano le azioni di guerriglia, mentre gli ululati delle donne identificano la lotta stessa.  Solo un grande regista può rendere poetica la tiranna verità.

La battaglia di Algeri

Un simbolo politico

Il passato di Gillo non poteva nascondersi: la matrice politica è rilevate e costituisce l’orizzonte di senso de La battaglia di Algeri. La collettività prevale sempre sui singoli, i quali possono assurgere ad essere protagonisti solo in quanto appartenenti alla dimensione di lotta corale. Potrebbe apparire scontato l’esito finale del film: una presa di posizione manichea in cui i buoni sono ottimi e i cattivi pessimi. Ed invece no: la grandezza di Gillo risiede nel dipingere la tavola dei personaggi con tutti i colori di cui dispone.

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Esemplare è la rappresentazione del colonnello Mathieu: non viene mai mostrato come nemico da odiare, gli si riconosce una dignità di pensiero e di azione, un’onestà intellettuale verso gli algerini che, in certi passaggi, impressiona.

La battaglia di Algeri

Le scene di tortura ai danni dei combattenti del FLN mai sfociano nel patetismo di una presa di posizione di un occhio giudice. L’equidistanza dalle due parti sembra lasciar trasparire un messaggio più semplice: le dinamiche storico-rivoluzionarie-politiche sono molto più complesse del semplice “io-buono-lui-cattivo”.

Lo spettatore si cala in questo dipinto del vero e può così uscirne con l’interpretazione che ritiene più necessaria. Il regista, dal canto suo, con i precipitati del proprio passato, ha potuto trasformare i propri ideali di oppressione, libertà, lotta sociale in un racconto reale che li racchiude e sprigiona in una grande trionfo artistico.

Amo le storie. Che siano una partita di calcio, un romanzo, un film o la biografia di qualcuno. Mi piace seguire il lento dispiegarsi di una trama, che sia imprevedibile; le memorie di una vita, o di un giorno. Preferisco il passato al presente, il bianco e nero al colore, ma non disdegno il Technicolor. Bulimico di generi cinematografici, purché pongano domande e dubbi nello spettatore.