Le assaggiatrici di Rosella Postorino arriva sullo schermo: è Silvio Soldini a recuperare la storia vera delle donne tedesche costrette ad assaggiare il cibo avvelenato di Hitler, raccontata nel romanzo dell’autrice e a tradurla in immagini filmiche. Un lato del regime nazista rimasto nascosto fino a pochissimo tempo fa, poiché solo nel 2012 Margot Wölk, una delle assaggiatrici, decide di svelare al mondo l’esistenza di questa figura e di raccontare la sua esperienza. Una storia potente che mette in rilievo aspetti poco considerati di quel periodo storico così tanto rappresentato. Quanto sarà rimasto di quella potenza nel passaggio da realtà a romanzo, e dal romanzo al cinema?
Le assaggiatrici, dal romanzo allo schermo
1943, Prussa Orientale. Rosa scappa da Berlino e si rifugia a casa dei suoceri, in un piccolo villaggio di campagna, dove attende notizie dal marito mandato al fronte. Durante la prima cena i suoceri le confessano il segreto ben mantenuto dagli abitanti del villaggio: nella foresta vicina c’è il quartier generale di Hitler, dove passa la maggior parte del suo tempo.
Ben presto Rosa si ritroverà parte integrante del microcosmo che orbita intorno al dittatore: insieme ad altre giovani donne tedesche, «in forma e in salute», verrà prelevata dalla sua casa e costretta a far parte della ristretta e mortifera cerchia delle assaggiatrici, ovvero coloro che hanno il compito di assaggiare ogni giorno i pasti del Führer per assicurarsi che non siano avvelenati. Il cuoco le rassicura: «le probabilità che siate avvelenate sono le stesse di perdere la guerra» sentenzia con fermezza davanti alle obiezioni di una delle ragazze.
Dinanzi a loro si pone una tavola ben apparecchiata e dei piatti pieni di leccornie raffinate, elementi impensabili per un popolo provato dalla guerra e che fatica a portare il pane in tavola. Le ragazze, ancora ignare del loro compito, sono estasiate: non riescono a credere di avere il permesso di sedersi a quella tavola e di poter nutrirsi liberamente. Ma se prima è la scarsità di cibo ad avvicinarle alla morte, adesso sono quei bocconi potenzialmente avvelenati a rendere i corpi di queste donne vulnerabili, in un bilico costante e consapevole tra la vita e la morte.
Le assaggiatrici devono attendere almeno un’ora dopo aver mangiato per verificare la presenza del veleno e i suoi possibili effetti, il tutto sotto lo sguardo dei soldati nazisti e del cuoco personale di Hitler. Attorno al tavolo delle assaggiatrici, si consuma un logorante rituale del terrore, una sorta di rito funebre tra i vivi dove la morte si insinua tra i denti e contamina ogni cosa.
Tra vedove e zitelle, la solitudine come marchio di colpa
In Le assaggiatrici la cifra stilistica e autoriale di Soldini si disperde nella materia trattata: il regista di Pane e tulipani mette in scena un film storico che adotta come parametro visivo una rigorosa ricerca di un realismo che restituisca le atmosfere e gli scenari dell’epoca, aspetto che eccelle nel reparto della scenografia e dei costumi. La sua attenzione a un universo femminile complesso, elemento centrale della sua filmografia, è l’elemento che riesce a emergere con più forza, complice la comprensione profonda delle dinamiche già presenti nel testo di partenza.
Le interazioni tra le donne rinchiuse nel ruolo di assaggiatrici tratteggiano un disegno della guerra dove entrano in gioco questioni come l’autodeterminazione dei corpi, il desiderio, il prezzo della solitudine femminile. Come dice Augustine, una delle assaggiatrici, lì dentro sono tutte «o zitelle o vedove». L’assenza di un uomo diventa il marchio definitivo di vulnerabilità. Tra questi due poli esistenziali, il desiderio femminile si muove convulso, confonde le acque e sfuma i confini tra accettabile e inaccettabile, tra innocenza e colpa.
Nonostante tutti questi elementi che hanno una loro forza, tuttavia, manca qualcosa a Le assaggiatrici, e allo stesso tempo c’è fin troppo: il film di Soldini sfiora molti elementi della macchina nazista senza soffermarsi davvero su nessuno di essi e persino la dinamica tra le assaggiatrici, che avrebbe potuto offrire un punto di vista diverso, finisce per diluirsi con l’avanzare del racconto. Molti spunti interessanti che non fioriscono mai davvero, irrigidendosi in battute affettate e didascaliche e personaggi dalla caratterizzazione abbozzata.
Si potrebbe parlare di occasione sprecata? Non proprio. Oltre agli aspetti che abbiamo già menzionato, Le assaggiatrici ci offre un ulteriore spunto di riflessione che trascende la realtà diegetica e ci pone dei quesiti sul nostro modo di raccontare il passato, in particolare se riguarda la Seconda Guerra Mondiale. Quali possono essere le nuove possibili modalità di rappresentazione? Su cosa vogliamo concentrarci? Di cosa vogliamo parlare e come vogliamo farlo? In breve: cosa chiediamo a un film storico contemporaneo?
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