Posso chiamare la mia pazienza, “amore”? Questa è solo una delle frasi de Le Fate Ignoranti (2001), la terza e forse più bella pellicola di Ferzan Özpetek, che ne racchiude l’essenza. Così il regista turco, naturalizzato italiano, che il 3 febbraio 2021 ha spento 62 candeline, riesce a regalarci, come nessun altro, un peculiare ritratto agrodolce dell’amore. Su uno sfondo drammatico, ma dal sottile tratteggio ironico, i suoi film accolgono un’atmosfera orientale in una quotidianità pittoresca e di eleganza sopraffina.
Tra silenzi sfumati da precise scelte musicali, sguardi pregni di parole e giustapposizioni cromatiche e comportamentali, ogni storia di Özpetek ritrae una fiaba contemporanea. Come quella dedicata alla fata ignorante che dimora in ciascuno di noi e cerca il suo posto nel mondo. Così, in uno scrigno segreto della Roma anni Novanta, paventata dall’AIDS, una cornice appariscente di misteriosi personaggi porta Antonia (Margherita Buy) a scoprire il ritratto più intimo della vita dietro una cornice di apparenze.
Ferzan Özpetek in una storia semplice
Tante volte la vita ci passa accanto e non ce ne accorgiamo nemmeno.
Per Antonia la vita è sempre stata una linea dritta da seguire. Medico specializzato nella cura dell’AIDS e sposata al suo compagno di banco del liceo, Massimo (Andrea Renzi), si è fermata alla prima stazione senza indagare altro. Senza chiedersi cosa nasconda un costante sorriso accondiscendente. Così, quando Massimo muore per un incidente, Antonia trova un quadro, una maschera femminile dalle fattezze espressioniste, con una dedica d’amore sul retro.
Questa appartiene a Michele (Stefano Accorsi), con cui Massimo intratteneva una relazione extraconiugale da 7 anni. Lui amava sia la moglie che l’amante, ma in modi diversi. E tale realtà infrange il castello di sicurezze costruito da Antonia, che lentamente si rapporta alla seconda famiglia di Massimo. Un gruppo di amici estroversi, omossessuali, transessuali e profughi turchi, sconosciuti alla quotidianità ordinaria della donna. Per lei non è solo un viaggio alla scoperta dell’altro, ma anche uno scandaglio personale.
Le Fate Ignoranti Amore e Amicizia raccolti in un segreto
L’unico modo di mantenere un segreto è scegliersi una persona a cui dirlo.
È giusto o sbagliato mentire alle persone che ami? La verità porta spesso dolore e scardina un equilibrio prestabilito. Mentire è invece più facile, più pulito, più silenzioso. Ed è sui silenzi e su un particolare gioco di sguardi che nasce l’amicizia tra Antonia e Michele. All’inizio nella donna c’è il desiderio smanioso di sapere, di conoscere cosa le è stato nascosto, ma poi affiora una nuova consapevolezza: squarciare l’incantata rete di bugie del passato per scoprire chi è Michele.
I due hanno magneticamente bisogno l’uno dell’altro perché nei ricordi e negli odori reciproci dimora un po’ di Massimo. Lui che «non ha mai avuto altri, né altre. Ha avuto solo noi», dice Michele. Cosa succede dunque quando l’amore trova una sua nuova forma nell’amicizia? I preconcetti, le aspettative, le speranze di una vita insieme cadono e rimane solo la consapevolezza di poter sempre contare l’uno sull’altro. Anche quando Antonia parte, ma noi sappiamo che ritornerà.
Il tema del diverso
Perché quando non ci vedo chiaro divento lesbica e i cazzi non mi interessano più.
Un apporto narrativo fondante è dato dalla diversità. Perché l’omosessualità dei personaggi di cornice, ritratta in quella componente pop di Mine Vaganti (2010) racconta in realtà qualcosa di più profondo. Un panorama vezzeggiato dagli stereotipi, dove l’amante del marito si immagina donna, così come la piccola realtà meridionale non può accogliere il figlio transgender. Tutto poi è contestualizzato in un’epoca recente, sfregiata dall’incombenza dell’AIDS e dalle vittime mietute, pensiamo per esempio a Freddie Mercury nel 1991.
Questa controparte storica e sociale è rappresentata da Ernesto (Gabriel Garko), che Antonia aiuta a combattere la malattia. Tuttavia quest’ultima offre sempre il pretesto per indagare l’amore. Un sentimento travolgente, spietato, che porta ad accettare l’abbandono, la violenza e la mancanza pur di averlo. “Volevo tutto di lui, anche la sua malattia” dice Ernesto e le sue parole aprono un varco di immaginazione più ampio e fortemente consapevole.
Ferzan Özpetek in Le Fate Ignoranti
Ad impreziosire il film ci sono poi elementi estetici e narrativi canonici di Özpetek. A partire dal riferimento alle sue origini, dettato non solo dalla presenza costante dell’attrice Serra Yilmaz, ma anche dal sottotesto musicale e culturale (pensiamo alle poesie di Nazim Hikmet) e dal richiamo politico a una realtà territoriale controversa, che ha costretto i suoi abitanti a cercare rifugio altrove. Si aggiunge quindi un importante impianto estetico, che abbraccia cromaticamente due mondi apparentemente separati.
Così i colori sgargianti della famiglia allargata di Michele si contrappongono alle tinte più spente e delicate di Antonia, che in chiusura si abbandona a un completo bianco, simbolo artistico di costruzione e rinascita. Non dimentichiamo poi che il quadro che dà il titolo al film, attribuito a Joseph Lanti, è stato dipinto dallo stesso regista che, come sempre, vuole mostrare la sua presenza partecipativa all’opera. Così che la narrazione raffiguri una collettività distinta nelle sue componenti, ma unita dall’amore.
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