È di Emma Dante il quarto e ultimo film italiano in Concorso alla 77° Mostra del Cinema di Venezia: Le sorelle Macaluso. Per la regista e drammaturga è la seconda partecipazione al Festival, dopo Via Castellana Bandiera (2013), che valse la Coppa Volpi per la miglior interpretazione femminile a Elena Cotta.
Le sorelle Macaluso, la trama
Maria, Pinuccia, Lia, Katia e Antonella sono cinque giovani sorelle che vivono da sole in una piccola casa nella periferia di Palermo. In un’afosa mattinata estiva, decidono di andare al mare. La giornata, iniziata all’insegna del divertimento, viene però sconvolta da un evento drammatico, che segnerà per sempre le esistenze delle protagoniste, raccontate dal film in tre capitoli, corrispondenti alle tre età della vita.
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Tratto dall’omonima opera teatrale scritta dalla stessa Emma Dante, Le sorelle Macaluso è un film sulla famiglia, sul tempo e sulle ferite che questo non può curare. Una liturgia familiare in cui i morti non se ne vanno mai veramente e i vivi rimangono aggrappati alla loro memoria, rivolgendo lo sguardo al passato e impedendo a se stessi di guardare avanti.
Vite immobili
Nel film, oltre alle Macaluso, vi è un secondo gruppo di personaggi: gli oggetti. Sempre gli stessi, essi invecchiano con le protagoniste, in una casa in cui negli anni nulla è mai cambiato: anch’essa immobile, come le donne che la abitano. Stessi gesti, stesse liti, stessi rancori. Nessuno, in quell’appartamento all’ultimo piano, è mai andato avanti con la propria vita; così come la maniglia della porta sul balcone non è mai stata aggiustata; l’alone nero delle sigarette spente da Katia non si è schiarito; il “servizio buono” di piatti è lo stesso da più di vent’anni.
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Ogni capitolo del film si conclude con una morte che chi resta non riesce a metabolizzare, e così chi è vivo lo è solo per metà. Si parla continuamente di andare via, ma non lo si fa. Sul mobile, uno svuota tasche con quattro mazzi di chiavi, dei quali nessuna sorella si sbarazzerà mai, perché è in quella casa che tutte continueranno a tornare.
E quando ci si accorge di non aver mai davvero cominciato a vivere, è ormai troppo tardi. Maria sognava di fare la ballerina e in quella maledetta estate si era innamorata. Poi tutto si è fermato. Ora, cresciuta e con un cancro che la sta consumando, come risvegliata dal torpore in cui si era rifugiata per anni, indossa un tutù bianco, si siede a tavola e divora un intero vassoio di dolci. Li ingurgita con smania, uno dopo l’altro, piangendo; come se su quel vassoio ci fosse la vita che non ha mai vissuto e che non vivrà mai.
Un simbolismo eccessivo
Nella versione teatrale de Le sorelle Macaluso, la scenografia è assente, lo sfondo nero, i costumi e gli oggetti di scena ridotti al minimo. Il film, invece, appare sovraccarico di elementi. Emma Dante si lascia tentare dalle possibilità del mezzo cinematografico per dare vita all’universo di simboli che già pervadevano la pièce, rendendola affascinante, ma che qui, più numerosi ed espliciti, invece di impreziosire la messa in scena, finiscono per appesantirla.
In mezzo al repertorio disordinato e saturo di suggestioni concepite dalla regista (alcune delle quali un po’ cliché, come il piatto andato in frantumi e rincollato da Maria), diventa difficile orientarsi, capire quale sia il messaggio che si vuole comunicare e di che cosa parli, davvero, il film.
Le sorelle Macaluso, un adattamento poco convincente
Il film di Emma Dante si dimostra non all’altezza della sua versione per il palcoscenico che, quando debuttò nel 2014, vinse alcuni tra i più prestigiosi premi teatrali.
Nonostante le buone interpretazioni, la pellicola soffre di una sceneggiatura che, nella sua versione per lo schermo, perde vigore e capacità di emozionare, sacrificata a favore di immagini ben lontane dal godere della medesima potenza comunicativa.
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