«You gave me fortune, you gave me fame/You gave me power in your god’s name/I’m every person you need to be». Così cantavano nel 1988 i Living Colour in Cult of Personality, una canzone sugli idoli e il culto che i loro sostenitori creano attorno a loro. Come nasce un idolo? Nasce nel momento in cui chi lo idolatra gli dà attenzione, fortuna e potere rendendolo al pari di un dio sceso in terra. Questo perché l’idolo, dopotutto, è proiezione di ciò che vorremmo essere: qualcosa che ha il potere di influenzare, di controllare la realtà e metterla ai suoi piedi.
Di culto della personalità se ne occupa lo sceneggiatore e giornalista Mark Anthony Green, che recentemente ha debuttato in sala come regista con Opus-Venera la tua stella, film distribuito da A24. Opus ha debuttato al Sundance Film Festival lo scorso gennaio ed è arrivato nelle sale italiane a marzo con un cast che annovera attori come John Malkovich, Ayo Edebiri e Young Mazino.
La trama di Opus
Opus si apre con la notizia di una stella del pop che ritorna dopo quasi trent’anni con il suo diciottesimo album, scatenando un grande polverone mediatico. La stella in questione è Alfred Moretti (John Malkovich), una popstar nota per il suo glamour e per essere stato in testa alle classifiche di tutto il mondo con il suo più celebre brano Dina, Simone, una popstar che ha incontrato le personalità più influenti del mondo e che, ad esempio, ha avuto relazioni amorose con modelle come Cindy Crawford.
Per celebrare questo evento considerato epocale dai media di settore, Moretti invita giornalisti, fotografi e influencer nel suo ranch di Green River, in Utah, per un’anteprima del suo album Caesar’s Request. In particolare, le persone invitate sono la giornalista scandalistica Clara Armstrong, la fotografa Bianca Tyson, l’influencer Emily Katz, il giornalista e vecchio amico di Moretti Bill Lotto e i giornalisti musicali Stan Sullivan e Ariel Eckton (Ayo Edebiri), quest’ultima sottoposta di Sullivan e frustrata dal suo lavoro.
Opus ci svela a poco a poco le pieghe che prenderà questo evento che tutti stavano aspettando. La presentazione di un album di una popstar di fama internazionale si trasformerà presto in una feroce resa dei conti con chi ha provato a ostacolarne il successo, e allo stesso tempo si rivelerà essere un’inquietante discesa negli inferi per conoscere le estreme conseguenze del culto della celebrità.
Le probabili influenze di Opus fra isolamento, ambizioni e consapevolezze
Guardando Opus vengono in mente due film che nel tipo di trama raccontata, ambientazione e temi affrontati sono simili: Midsommar di Ari Aster e The Menu di Mark Mylod. I tre film, infatti, sono ambientati in luoghi lontani dagli occhi della società: il ranch di Moretti, la comune rurale di Hårga e Hawthorne, il ristorante privato costruito su un’isola, sono ambientazioni il cui isolamento mostra fino a che punto le persone possano spingersi per dare sfogo alle proprie ossessioni.
Un altro punto in comune è la critica, appunto, alle ambizioni dei personaggi coinvolti. Se in Opus il fulcro della trama è l’ossessione per il successo e la celebrità mentre in Midsommar è, invece, quella dell’evasione dalla propria noia esistenziale attraverso la conoscenza di culti segreti, in The Menu l’ossessione è, invece, per lo sfarzo di ricchezza attraverso pietanze elaborate che portano chi le realizza (in questo caso lo chef Julian Slowik) a perdere la passione per la propria arte culinaria per soddisfare la vanità di poche, ma influenti persone.
Altro aspetto interessante è la presenza di personaggi – tutti e tre femminili – attraverso cui guardiamo e osserviamo le conseguenze negative di certe ossessioni: Ariel in Opus, Dani in Midsommar e Margot in The Menu sono personaggi che inizialmente si addentrano nelle vicende per frustrazioni o traumi personali, ma che a poco a poco si rendono conto, grazie proprio alla loro posizione di outsider, di quanto estreme possano essere le conseguenze delle nostre ambizioni e vanità, portando a isolarci dal resto del mondo in un abisso senza via d’uscita.
Il tribalismo mediatico di Opus secondo Mark Anthony Green
La cosa interessante di Opus è l’esperienza che Mark Anthony Green porta con sé nella sua realizzazione. Giornalista del magazine «GQ», Green ha realizzato interviste ad attori e musicisti arrivando a conoscere bene le dinamiche del star system americano. In occasione del Bif&st di Bari, Green ha parlato di Opus nel seguente modo:
Opus è la mia teoria sul tribalismo. Il mio approccio è quello di dire qualcosa che è pesante, importante e controverso nel modo più divertente possibile. Quando utilizziamo la parola celebrità andiamo ben oltre il semplice concetto di intrattenimento. […] Semplicemente credo che tutti noi abbiamo delle persone o delle personalità a cui siamo strettamente correlate e legate come individui e come società. E quindi c’è un po’ questa lotta per cui il mio idolo è il migliore del tuo. Ecco, queste sono stronzate.
Avendo avuto stretto contatto con lo showbiz, Green sa bene quanto l’idolatria di certi personaggi possa essere dannosa, specie di questi tempi di influencer, tiktokers o altro. Attraverso Opus, Green vuole raccontarci come, soprattutto al mondo d’oggi con internet, il culto della celebrità possa portare a un tribalismo estremo dove a rimetterci sono personalità che diventano prigioniere delle proprie tifoserie e che al minimo passo falso devono pagare pegno.
Non è un caso che Green abbia scelto un attore come John Malkovich per interpretare il controverso protagonista di Opus. Quest’ultimo, famoso per film come Essere John Malkovich o per serie tv come The New Pope è in realtà un personaggio schivo nella vita reale, lontano dagli eccessi dello star system, e, per questo, personaggio avvolto dal mistero e dunque la persona più adatta a interpretare una figura come Moretti che di tribalismo si nutre e ne soffre al contempo. Oltre a questo, Green si è inventato anche il culto dei Livellisti, una setta che venera Moretti e la cui presenza accentua il tribalismo degli idoli a cui si è già fatto riferimento.
Opus: essere Alfred Moretti e il culto dei Livellisti
Citando lo stesso Malkovich – ma, in questo caso, più Spike Jonze – per parlare di Opus si cercherà di rispondere alla seguente domanda: cosa significa essere Alfred Moretti? Essere quest’ultimo significa essere un uomo che sa suscitare grandi clamori mediatici, ma che allo stesso tempo unisce e divide le folle e la critica: c’è chi lo ama per il suo sfarzo e le sue canzoni, chi, invece, al minimo sbaglio è pronto a bersagliarlo cercando di minare la sua celebrità, come, ad esempio, è successo per le reazioni che ha avuto nei confronti della morte del suo cane, considerati da molti, persino da persone a lui vicine, come esagerate.
Nel primo caso, Moretti ha creato una sorta di setta, quella dei Livellisti, i cui precetti sono impartiti dal libro – fittizio, ovviamente – Le meditazioni del livello. I Livellisti indossano tutti una livrea blu, ed eseguono riti specifici come quello del pane a cena, dove ognuno assaggia un boccone della stessa pagnotta – quasi fosse il corpo di Cristo, o meglio dell’idolo Moretti, offerto in sacrificio per noi –, della creazione di collane di perle prese dalle ostriche, dei massaggi e delle lezioni di musica, teatro e attività ricreative offerte ai bambini. Plasmando le menti dei suoi fan, Moretti diventa un dio che può indirizzare il pensiero pubblico e imporre loro la sua visione delle cose.
Contro chi, invece, lo critica, in particolare i media, Moretti assurge a divinità punitiva. Non a caso il titolo del suo ultimo album si chiama Caesar’s Request, la “richiesta di Cesare”. Il titolo fa riferimento al rapimento di Cesare da parte dei pirati a Farmacusa, in Asia Minore. Una volta che Giulio Cesare riuscì a pagare il riscatto, ritornò dai pirati con il suo esercito prendendo le loro ricchezze e crocifiggendo i suoi rapitori. Questo episodio dimostra quanto vendicativa possa essere una persona, soprattutto se ha un grande potere, che sia militare come Giulio Cesare o mediatico come Alfred Moretti.
Come Cesare, anche Moretti infatti si vendica dei suoi “rapitori”, ovvero di coloro che hanno provato a rovinare la sua immagine: chiede loro di essere testimoni della grandezza del suo genio, e per dimostrarla chiede loro in pegno persino le loro vite, un riscatto, dunque, ben più grande della semplice stroncatura e critica che gli è stata rivolta in carriera. Questo è dovuto al fatto che il tribalismo degli idoli è diventato talmente forte che certe celebrità e i suoi sostenitori sono disposti a tutto, anche a rovinarti la vita, nel momento in cui ti metti contro gli idoli che loro hanno contribuito a costruire.
Opus, Ariel Eckton cronista del culto della personalità
Se per il suo direttore è stato sorprendente vederla invitata all’evento esclusivo di Moretti, per noi spettatori e lo stesso Moretti non è stato un caso che anche Ariel sia stata invitata a Green River all’anteprima di Caesar’s Request. Moretti è, infatti, molto attratto dall’aspirante giornalista, le riserva molte attenzioni ed è l’unica fra i suoi colleghi a essere trattata con certo riguardo dai Livellisti, che, ad esempio, la accolgono al loro tavolo mentre Moretti mangia assieme agli altri giornalisti.
Il rapporto fra Moretti e Ariel è simile a quello fra il vecchio marinaio e il suo giovane ascoltatore della Ballata del vecchio marinaio di Samuel Taylor Coleridge. L’iconica popstar ha bisogno di tutelare Ariel perché vede in quest’ultima una persona ancora lontana dal successo, ancora poco ossessionata dagli idoli come lui, e per questo la persona più indicata a mostrarle come il successo e i media contribuiscano a fare di un idolo, in realtà, un mostro che non solo fagocita la celebrità in questione, ma anche le persone attorno che idolatrandola perdono contatto con la realtà e diventano, quindi, facilmente manipolabili.
Restando sul parallelismo con Coleridge, Ariel diventerà nel corso del film a sadder and wiser woman: attraverso il suo soggiorno a Green River, Ariel comprende che diventare la giornalista che ha sempre sognato di essere significa cedere agli eccessi dell’idolatria, contribuire ad alimentare o a distruggere gli idoli, rinunciare alla propria identità per qualcosa di costruito, così come Moretti ha dovuto rinunciare alla sua umanità per diventare, in realtà, un mostro di idolatria, una maschera che per lui è diventata una prigione da cui non può più uscire.
Opus, l’opera prima di Mark Anthony Green
Sebbene sia un’opera prima e qualche difetto a livello tecnico e di sceneggiatura ci sia, nonché una trama troppo simile ai modelli già citati, ma poco approfondita – sappiamo, in fondo, quasi poco del culto dei Livellisti, ad esempio –, e degli attori le cui prestazioni non saranno poi così memorabili – il solo John Malkovich non riesce a reggere da solo tutto il film, e Ayo Edebiri è ancora lontana da non essere soltanto considerata come l’attrice di The Bear –, Opus resta un interessante debutto con del potenziale che ha qualcosa di originale da dire.
Attraverso il personaggio fittizio di Alfred Moretti e il suo culto dei Livellisti, Mark Anthony Green porta dentro lo schermo la sua esperienza diretta da giornalista con lo star system americano mostrandoci come il culto della celebrità possa essere più estremo e inquietante di quello che si possa pensare nel momento in cui ci racconta come l’idolatria sia una prigione da cui diventa impossibile uscire: per la celebrità, che diventa incapace di esprimere se stessa, prigioniera di una maschera costruita dalla critica, e per i media e i fan, che esistono solo in funzione della loro adulazione verso l’idolo perdendo la cognizione della realtà e dunque la ragione e l’obiettività del proprio pensiero.
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