Oh Canada è un piccolo gioiello allo stato grezzo: Paul Schrader utilizza la macchina da presa per scavare nella vita e nei ricordi di Leonard Fife, fotoreporter di illustre fama degli anni Sessanta e Settanta. Con il fotografo che passa dall’altra parte dell’obiettivo, dal documentare all’essere documentato, i ruoli cominciano a confondersi, l’impalcatura del mito a vacillare, e tutte le parole d’ordine che chiamiamo valori davanti alla materialità della morte perdono la loro perentorietà svelandosi indecise, confuse e smarrite.
Un film fatto di doppi, dallo stesso Fife interpretato da Richard Gere e Jacob Elordi in una mescolanza bizzarra tra gioventù e vecchiaia, alla macchina da presa stessa che irrompe in campo e si trasforma in una (ben poco) neutra testimone e in organizzatrice silenziosa e tirannica di immagini, di ricordi e di intere esistenze. La macchina da presa diventa compagna terrena della morte: presenta il conto e scava con voracia fino ad arrivare all’essenza delle cose. Ma come la morte confonde le acque, riorganizza i ricordi e riporta a galla domande che resterrano sempre senza risposta.
Oh Canada, una confessione senza sacralità
Il documentarista Leonard Fife, ormai in punto di morte, decide di organizzare un’intervista in cui ripercorre la sua vita: davanti all’ex allievo Malcolm e alla moglie Emma (Uma Thurman), Fife cerca di sbrogliare il filo dei ricordi a partire da quel fatidico 1968, anno in cui decise di sottrarsi all’arruolamento per la guerra del Vietnam e di rifugiarsi in Canada.
Ma il racconto di Fife non scioglie nulla, al contrario: l’esponente di spicco del cinema-verità prende il racconto di una vita costellata di successi lavorativi e personali e la sua figura pubblica del fotografo impegnato politicamente e ne sfila i contorni creando nuovi nodi, prendendo ogni singolo tassello nella speranza di lasciare in eredità una versione più autentica di se stesso.
Il racconto per i posteri di Fife diventa una confessione: non più una testimonianza per chi verrà dopo ma un catalogo confuso di colpe e di vuoti a cui sono coloro che esistono adesso a dover far fronte. Durante il suo racconto il fotoreporter richiede costantemente lo sguardo della moglie su di sé come condizione necessaria per continuare nella sua ricerca delle parole per restituire la sua verità. Ma questa confessione non ha nulla di religioso, non culmina nella beatitudine dell’assoluzione o il sollievo di chi ha confessato tutti i peccati: è solo un’impietosa lente di ingrandimento sulla groviglio inerstiparbile tra verità, bugie, finzioni e rimossi che forma la vita di un uomo.
Oh Canada e il cinema come spazio della morte
Nell’affastellarsi di formati diversi che incorniciano i frammenti del resoconto di Fife non si ritrova nessuna risoluzione consolatoria: tra la malattia e l’effetto dei farmaci la mente del fotoreporter fatica a dare un senso di coesione al suo racconto, fatto di tradimenti e bugie che si riversano davanti alla telecamera senza soluzione di continuità, senza vere attenuanti né possibilità di redenzione.
Oh Canada ci mette davanti al fatto che anche una confessione è un costrutto narrativo, in cui i ricordi, già materiale impuro, vengono riplasmati dai rimorsi e dai sensi di colpa e l’immagine che li rispecchia contaminati dall’ombra della morte imminente. Schrader ristabilisce il rapporto ambiguo e primigenio tra immagini filmiche e menzogne, mettendo in scena, attraverso la sofferta confessione di un uomo sulla soglia tra vita e morte, il cinema come spazio oscuro trafitto dalla luce, dove le storie nascono in quello scontro e fusione tra buio e luce, tra immagine e sguardo.
Uno spettacolo d’ombre che emergono dalle profondità della psiche e si fanno scolpire e definire da una fonte luminosa per poi essere offerte in pasto allo sguardo. Uno sguardo che può ferire ed essere ferito, sottrarsi e ritornare nel buio, oppure accogliere e custodire, nonostante la morte e il dolore. Verità occasionali che emergono dall’oscurità: questo è il cinema che ci racconta Schrader in Oh Canada.
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