Per un cinefilo, la sala è un rito. Si compra il biglietto, ci si accomoda sulle morbide poltrone rosse, si spengono le luci e la magia ha inizio. Due ore trascorse al cinema equivalgono a due ore fuori dal mondo. Qualunque cosa accada al di là del magico cerchio della sala può attendere. Il cinema diventa un rifugio, un’evasione dalla realtà. Lo schermo si trasforma nel luogo dove si riversano sogni, speranze e, a volte, la realtà stessa. Questo è ciò che accade a Cecilia, la protagonista de La rosa purpurea del Cairo di Woody Allen: dopo numerose visioni del suo film preferito — che porta lo stesso titolo — il protagonista della pellicola esce dallo schermo per incontrarla.
La rosa purpurea del Cairo è una dolcissima fiaba per chiunque abbia mai desiderato che il cinema invadesse la propria vita quotidiana, portando con sé una scintilla di magia in più. È un racconto per tutti coloro che coltivano degli amori immaginari, nella realtà così come oltre il sottile schermo di una sala. Ma è anche, e forse soprattutto, una fiaba ammonitrice: il messaggio finale del film invita infatti a fare attenzione a ciò che si desidera.
La rosa purpurea del Cairo tra schermo e realtà
1935, New Jersey: Cecilia (Mia Farrow) è una giovane donna che lavora come cameriera in una piccola tavola calda e vive con un marito abusivo e infedele, Monk (Danny Aiello). La ragazza vive questa insoddisfacente realtà passando i brevi istanti tra la pulizia di un tavolo e un altro a fantasticare sul suo grande amore, il cinema. Quando perde il lavoro, unica fonte di introiti della coppia, la disperazione sembra inghiottire la ragazza. Ma come il sentiero di mattoncini gialli di Dorothy le si apre una strada sotto i piedi che la conduce alla sala. Cecilia tornerà ogni giorno a vedere quello che diventerà il suo film preferito: La rosa purpurea del Cairo.

Alla visione del giovane e avvenente protagonista del film, Tom Baxter (Jeff Daniels), Cupido scocca la sua freccia: per Cecilia sarà impossibile lasciar andare dell’amore per La rosa purpurea del Cairo. L’attaccamento al film nasce in parte dal suo bisogno di evasione, ma soprattutto dall’incanto che Tom rappresenta per lei — un uomo gentile, premuroso, tutto ciò che nella vita reale le manca. Un giorno, all’ennesima visione del film da parte di Cecilia accade l’impossibile: Baxter si volta verso il pubblico, rompe la quarta parete ed esce dallo schermo.
“Mio Dio, deve proprio piacerti questo film, sei stata qui tutto il giorno e ti ho vista altre due volte… Devo parlare con te.” Con queste parole, Baxter compie il grande passo: dallo schermo bidimensionale e in bianco e nero, diventa fisico, tangibile, a colori. Si dirige verso una spaurita Cecilia, e iniziano così le avventure del duo, una fantasia irreale che tutti prima o poi abbiamo desiderato. La rosa purpurea del Cairo dona agli appassionati di cinema il desiderio più segreto, ma mostra loro come anche il sogno più roseo può trasmutarsi in incubo.
La riflessione cinematografica di Woody Allen

Allen non è nuovo ai giochi tra realtà e cinema, tra ciò che risiede sullo schermo e gli spettatori. Un topoi solito del suo cinema è proprio quello dello sguardo in macchina: un esempio ne sono alcune scene di film come Manhattan o Basta che funzioni, in cui il protagonista afferma ad alta voce le sue credenze, convinzioni, talvolta nevrosi allo spettatore in sala, mentre gli altri personaggi del film lo ignorano o ne tengono di poco conto. Ne La rosa purpurea del Cairo Allen fa un passo oltre: porta il personaggio filmico a comunicare con Cecilia rompendo definitivamente questa barriera tra i mondi.
Il cinema di Allen è molto spesso una lettera d’amore: Manhattan è dedicato alla città da lui profondamente vissuta, La rosa purpurea del Cairo comunica l’amore per il cinema classico. Sono gli anni della grande depressione e tutto ciò che resta alla gente è la propria forza d’animo. I film sono stati responsabili della rinascita della nazione in quel periodo, un momento sociale in cui gli individui non pensavano all’incapacità di portare cibo in tavola, ma si ritrovavano in sala, a condividere un momento che ha sancito la ripresa dell‘identità nazionale.
La lettera d’amore è anche una lettera d’addio: non è un caso che La rosa purpurea del Cairo vista da Cecilia sia in bianco e nero, mentre il film visto da noi è a colori. L’epoca dell’Hollywood classica — quella di Casablanca e Via col vento — sta tramontando. Al suo posto si sta facendo avanti la Nuova Hollywood, una generazione di cineasti che ribalterà totalmente il modo di percepire il rapporto tra cinema e realtà, attraverso tutta una serie di innovativi codici narrativi e storie anticonvenzionali.
La rosa purpurea del Cairo è quindi uno sguardo malinconico al passato, una cornice che si apre e si chiude con la canzone di Fred Astaire “Cheek to Cheek” dal film Cappello a cilindro. Dimentichiamo per un attimo che il mondo è andato avanti e che il cinema è diventato più complesso, più frammentato — forse, anche per questo, meno rassicurante. Cecilia è la protagonista di un film che non appartiene a questo tempo, motivo per cui compensa la mancanza del proprio lieto fine con quello altrui, quello cinematografico. Salvifico dunque il cinema classico di Hollywood che senza pretese la accompagna verso sponde più tranquille, offrendo conforto e rassicurazione.
Tom Baxter, tra ispirazioni cinematografiche e sguardo femminile

La rosa purpurea del Cairo non è soltanto una riflessione sulla Hollywood classica, ma un’opera che raccoglie diverse influenze culturali e cinematografiche.
Il personaggio di Tom Baxter rappresenta l’erede di una lunga tradizione di divi del grande schermo, incarnando quel tipo di uomo ideale che le donne vittime della noiosa quotidianità amano ammirare e sognare. Allen non nasconde la forte influenza che Fellini ha avuto su di lui nel corso della carriera: Baxter altro non è che la rivisitazione del personaggio di Alberto Sordi ne Lo sceicco bianco. Quest’ultimo, a sua volta, rimanda alle radici stesse del cinema, a Rodolfo Valentino nel celebre Lo sceicco del 1921, un sex symbol che ha definito gli anni del cinema muto anche attraverso questo ruolo.
L’uomo ideale, dal background sfumato e accompagnato dal carisma dell’ignoto. Quest’associazione degli interessi amorosi dei film nominati con l’Oriente non è casuale: le donne non sono semplicemente affascinante dalla seduzione (a volte passionale, a volte innocente) che questi uomini esprimono, ma anche dalla loro provenienza, un luogo lontano quasi immaginario. Fino ai primi anni 2000, l’Oriente era sinonimo di fascino e mistero, come sottolineato già da Edward Said nel 1978 nel suo saggio Orientalismo. Si torna all’idea di “escapismo”: delle donne che vivono delle vite infelici, a causa della loro posizione sociale o del matrimonio, che trovano nel cinema un modo per evadere dalla realtà.
La fuga dalla realtà è la tematica per eccellenza affrontata da La rosa purpurea del Cairo:
“To me, the film is strictly about reality and fantasy. Cecilia could have had fantasies about radio, or books, or those popular magazines.”
Intervista di Roger Ebert a Woody Allen
Questi uomini richiamano a luoghi lontani dalla grigia realtà quotidiana, prendono delicatamente per mano e conducendo in luoghi paradisiaci. Il titolo stesso del film che Cecilia va a vedere, La rosa purpurea del Cairo, evoca questa dimensione in modo ancora più potente rispetto ai film di Fred Astaire che era solita guardare precedentemente. “La rosa purpurea del Cairo” richiama in primis a un luogo esotico e distante, ma anche un fiore prezioso e raro, forse unico al mondo: ciò che Cecilia rappresenta per Tom Baxter.

Avremo sempre il cinema
La consapevolezza dell’impossibilità di cambiare la propria condizione nella vita reale spinge Cecilia — così come Wanda, protagonista de Lo sceicco bianco — a rifugiarsi nei sogni. Ma nell’istante in cui questi ultimi prendono fattezze materiali, queste donne li rifiutano: è come se fosse inscritta nella condizione femminile un’accettazione silenziosa della sofferenza. Alla fine Cecilia, come Wanda, tornerà dal marito. Il cinema le ha concesso un assaggio di bellezza, la possibilità di vivere le sue fantasie, ma sempre nella consapevolezza che la realtà resta l’unico luogo di ritorno.
Ne La rosa purpurea del Cairo non c’è un lieto fine, né una celebrazione trionfante e femminista. Cecilia si distingue nettamente da molte delle altre donne del cinema di Allen: non è una ragazza ingenua e superficiale (Basta che funzioni) né nevrotica allo stesso livello degli uomini (Blue Jasmine). È semplicemente una perdente della vita, una donna fragile, ma profondamente umana. Ne La rosa purpurea del Cairo troviamo il personaggio femminile di Allen probabilmente più riuscito: Cecilia non è una funzione narrativa al servizio del protagonista maschile, ma un personaggio autonomo con una propria complessità emotiva.

Sarebbe stato facile, per Allen, scegliere ancora una volta un uomo come protagonista, magari l’ennesimo nevrotico che si autocommisera inutilmente. Invece, al centro de La rosa purpurea del Cairo, troviamo la dolce Cecilia, punita solo per la sua condizione di esistenza, una perdente con cui tutti possiamo veramente empatizzare per almeno un momento della nostra vita. Non ci rimane quindi una morale o un lieto fine, ma solo l’amaro sapore della vita così com’è: dura, indifferente. Così, quando tutto sembra perduto, almeno rimane il cinema — e a volte, questo basta.
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