copertina a doll made up of clay corto
Credit: Stephanie Cornfield

A doll made up of clay, direttamente da Cannes

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7 minuti di lettura

Il festival di Cannes, oltre ad essere uno dei più importanti momenti di confronto della comunità cinematografica internazionale, è l’occasione nella quale scoprire quali nuove voci potremo cominciare a vedere sul grande schermo negli anni a venire. In particolare la sezione La Cinef ospita una serie di corti che molto promettono sul futuro dei loro autori.

Credit: Stephanie Cornfield
Kokob Gebrehaweria Tesfay, fotografato da Stephanie Cornfield

Quest’anno era presente anche Kokob Gebrehaweria Tesfay col suo A Doll made up of Clay: nato dall’incontro fra la cultura etiope -e pan-Africana- di Tesfay e le sue esperienze da studente straniero in India, il corto si è distinto per la fine attenzione estetica con cui è stato concepito; la curatissima fotografia salta subito agli occhi coi suoi colori caldi, i suoi marroni e rossi scuri volti a richiamare le sfumature della terra. Protagonista è un giovane calciatore nigeriano emigrato in India alla ricerca di una carriera da professionista, che per colpa di un grave infortunio non può più giocare: bloccato in un mondo che sembra non volerlo accettare, l’unica consolazione è il rapporto con una donna del posto, che ne vede ed interpreta la solitudine e sofferenza.

A doll made up of clay, NPC intervista Kokob Gebrehaweria Tesfay

Noi abbiamo avuto la possibilità di parlarne direttamente con Kokob, ritratto a Cannes dalla nostra collaboratrice Stephanie Cornfield.

Come mai hai scelto di raccontare questa storia in particolare? La tua personale esperienza di studente straniero in India ha avuto influenza sulla scelta?

Si tratta di una storia ispirata da un vero immigrato africano di Calcutta. Le sua è una fra le tante storie di immigrati africani che arrivano in India col desiderio di diventare calciatori professionisti e che devono invece scontrarsi con realtà come difficoltà economiche, razzismo, discriminazione. In quanto studente Etiope mi sono sentito in dovere di amplificare la voce di questa comunità e darle la possibilità di farsi sentire a livello globale. Il film nello specifico nasce da un documentario sullo stesso soggetto che avevo già girato, che è poi cresciuto e diventato A Doll made up of Clay; essere uno studente al Satyajit Ray Film and Television Institute mi ha concesso sia la vicinanza che la prospettiva per raccontare storie come questa. Inoltre ci sono pezzi della mia personale esperienza intrecciati coi racconti altrui, per cui sì, il film è personale nella dimensione in cui mi sono sentito in dovere di farlo.

Ho letto che girare il film è stato complicato e che avete fatto tutto con un budget minimo. Puoi raccontarci come si sono svolte le riprese, come hai trovato le risorse necessarie per farlo?

A Doll made up of Clay è un progetto ufficiale del Satyajit Ray Institute, quindi doveva da regolamento essere girato con zero fondi. In totale avremo speso 200 euro, la cui metà venivano direttamente dalle mie tasche, non avevamo nessun fondo esterno. L’istituto ci ha fornito i materiali tecnici: camere, studio per la post-produzione, luoghi, materiale per l’illuminazione e per l’audio. Tutto il resto lo abbiamo cercato noi coi nostri mezzi, dagli attori alla troupe. Per me era importante parlare singolarmente con ogni membro della produzione: Vinod Kumar è stato il direttore della fotografia, Soham Pal si è occupato del sound design, Haru/Mahumud Abu Naser è stato il montatore, Himangshu Saikia il compositore delle musiche e Pankaj Kotwar il production designer. La protagonista femminile è Geeta Doshi, una professionista di Calcutta, mentre il protagonista maschile è la persona che ha ispirato A doll made up of clay, in primo luogo, un immigrato africano non-professionista di nome Ibrahim Ahmed, col quale avevo già collaborato anche per il documentario precedente. Ci tenevo a fare tutti i loro nomi.

Quali suggestioni filmiche ti hanno maggiormente ispirato nella realizzazione di A Doll made up of Clay? Personalmente ci ho rivisto molto Wong Kar-Wai e Djibril Diop Mambéty… ci ho preso?

Assolutamente. Wong Kar-Wai è un grandissimo punto di riferimento, con le sue immagini stilizzate, i suoi slow-motion e la sua capacità di mescolare il folklore con l’emotività mi ha profondamente influenzato. Anche Mambéty e Haile Gerima sono modelli a cui aspirare: la loro frammentazione della narrativa, l’utilizzo della musica ed il loro realismo poetico sono stati fondamentali per A Doll made up of Clay. Volevo che il film sembrasse una memoria, un mito e la realtà contemporanemente.

Come hai reagito scoprendo di essere stato selezionato a Cannes? E c’è invece un qualche momento del festival che ricordi con particolare affetto?

Ho iscritto il film io stesso, senza aspettative. Quando ho ricevuto la mail di selezione non potevo crederci, c’era un commento di Dimitra Karya, la direttrice artistica de La Cinef che diceva: “Congratulazioni per questo bellissimo film, che affronta i mali del mondo senza essere magniloquente. Sono stata incantata dalle leggende e dai miti che riporta, sbalordita dalla bellezza delle sequenze procedurali della creta.” Queste parole me le porto nel cuore, mi danno forza e mi ricordano perché ho deciso di raccontare storie. Ovviamente sul momento ho pianto di gioia, e stato uno dei momenti più importanti della mia vita.

Riguardo la seconda domanda, sì, ricordo che subito dopo la proiezione la risposta da parte del pubblico è stata stupenda: diverse persone si erano commosse ed altre ancora sono venute a congratularsi di cuore. Essere visto e capito in questo modo, in un tale contesto… è stato soverchiante, indimenticabile.


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Appassionato e studioso di cinema fin dalla tenera età, combatto ogni giorno cercando di fare divulgazione cinematografica scrivendo, postando e parlando di film ad ogni occasione. Andare al cinema è un'esperienza religiosa: non solo perché credere che suoni e colori in rapida successione possano cambiare il mondo è un atto di pura fede, ma anche perché di fronte ai film siamo tutti uguali. Nel buio di una stanza di proiezione siamo solo silhouette che ridono e piangono all'unisono. E credo che questo sia bellissimo.

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