Il tono immobile e il perimetro strettissimo in cui sono costrette a muoversi le emozioni in A White White Day emergono fin dalle prime scene, soprattutto quando al poliziotto Ingimundur – obbligato a recarsi dallo psicologo una volta alla settimana – gli viene chiesto cosa gli piace fare e lui risponde che gli piace costruire la casa per sua figlia, e quando l’uomo gli domanda cosa non gli piace fare risponde con tono deciso che non gli piace smettere di costruire quella casa.
Parole per aggrapparsi alle zone sicure della propria anima, scelte e movimenti compiuti per non oltrepassare il recinto che porta a luoghi di sofferenza, luoghi troppo nebulosi e profondi da affrontare. A White White Day – opera seconda del regista islandese Hlynur Pálmason presentata nel 2019 a Cannes, vincitrice della 37ª edizione del Torino Film Festival e disponibile ora su MUBI – è un thriller psicologico noir sotto però la luce fioca e distorta di un’Islanda incontaminata, testimone immobile delle complessità e delle crudeltà dell’essere umano.
Lo scontro impari tra passato e presente
A White White Day si apre con la caduta del primo tassello che smuoverà una catena di conseguenze irreparabili, un incidente in macchina mortale che romperà l’equilibrio di un microcosmo familiare apparentemente stabile. A perdere la vita è la moglie del silenzioso ed enigmatico Ingimundur, scomparsa che oltre a scavare un vuoto incolmabile farà emergere un tradimento tenuto nascosto che costringerà il poliziotto a voltarsi indietro e ricomporre le fila di un rapporto diverso da quello che aveva sempre disegnato.
Una storia piccola, composta da lievi movimenti e pochissimi punti cardine così da avere lo spazio necessario per entrare nell’animo più profondo e radicato dei personaggi, analizzarne i turbamenti, comprendere e assistere alle scelte compiute, capire le spinte emotive che li guidano verso un destino incontrollato e imprevedibile.
A White, White Day è un’inesorabile caduta emotiva
In A White White Day tutti i pilastri della narrazione restano sottotraccia, emarginati e nascosti dentro una dimensione di non detto, di parole sostituite da roboanti silenzi e coperte dalla neve e dalla nebbia. Una fitta e densa nebbia che separa le persone, trattiene segreti, pone distanze invalicabili, lo scenario ideale per indagare il tema della separazione, dell’accettazione del lutto, dell’affrontare i traumi del passato.
Hlynur Pálmason, infatti, pone al centro della sua indagine l’archetipo dell’uomo forte, imperturbabile, rispettato dall’intera città, per poi farlo crollare lentamente, lo porta su strade inadatte, scomode, a compiere gesti impensabili, a mettere in discussione il suo ruolo all’interno della famiglia, così da tracciare un arco ampio e con uno spettro maggiore di cambiamento. Conosciamo Ingimundur, interpretato da un immenso Ingvar Eggert Sigurðsson, nei panni di un padre premuroso, un nonno amorevole e finiamo per delinearlo come un diavolo vendicativo, un’anima persa e disperata, arriviamo a comprendere la sua isteria e le sue urla sconclusionate vomitate verso il nulla.
Anche la materia cinematografica si adatta di conseguenza all’intento primitivo del regista e i lunghi piano sequenza, la brevità e l’asciuttezza chirurgica dei dialoghi, la musica sempre in tensioni con violini che non smettono mai di stridere, i piani fissi e i campi larghissimi non fanno altro che supportare l’obiettivo narrativo e creare il setting perfetto per la storia che A White White Day racconta.
Hlynur Pálmason con il suo secondo lungometraggio annulla il confine che separa la terra dal cielo per non limitarsi a raccontare una semplice dinamica di vendetta, di caduta agli inferi del protagonista, ma per raggiungere un livello simbolico che aggiunge uno strato fondamentale alla narrazione che rende così A White, White Day un film profondo e universale, cinema puro che parla e comunica tramite immagini purissime.
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