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After Work, il labirinto del lavoro contemporaneo

4 minuti di lettura

Un labirinto. È questa l’immagine che il regista Erik Gandini utilizza per rappresentare la difficoltà di districarsi nella rappresentazione del tema lavorativo. Le prime sequenze di After Work sono una giustapposizione di lente riprese di un giardino-labirinto e del discorso di una giovane ragazza sudcoreana che rivela fin da subito il cuore della narrazione di questo documentario.

La figlia riassume in pochi e brevi battute la vita del padre, improntata unicamente al lavoro, enucleando così l’intima connessione tra il tema professionale e il tema identitario. Avendo sacrificato la vita personale e familiare, l’identità del padre è basata sulla sua occupazione, tolta quella non resta nulla. 

Accanto al labirinto, nello stesso giardino, la statua del dio Kronos rappresenta un secondo elemento essenziale nel tematizzare il lavoro: il tempo. La statua del dio ha le ali, un simbolismo che invita a riflettere sulla fugacità del tempo. Come decideremo di trascorrerlo?

After Work, un viaggio attraverso l’etica del lavoro di quattro paesi

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Da qui ha inizio la narrazione che porta attraverso quattro paesi – Italia, Corea del Sud, Stati Uniti, Kuwait – rappresentando soggetti che stanno agli antipodi per scelte e stili di vita, dall’ereditiera al corriere di Amazon. Le situazioni lavorative sono diversissime tra loro ma il documentario After work svela che lavoro e tema identitario sono interconnessi. Il tipo di professione o la sua assenza, la quantità, la sua gestione, sono fattori che determinano in buona parte la felicità del soggetto e che portano a compiere scelte di vita determinanti.

Per spiegare perché il lavoro non smette di essere fulcro identitario – lo era per la generazione del padre della ragazza coreana, lo è per i NEET, giovani nullafacenti a tutti gli effetti poiché “Not in Education Employment or Training” – Gandini interroga teorici che rintracciano le radici storiche e filosofiche di questo approccio al lavoro che ha portato a fenomeni come lo stacanovismo performativo.

Un cambio di passo

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After Work è spesso caratterizzato da un cambio di ritmo e di passo, guidato da una composizione musicale e un sound design attenti, originali, che campionano battute chiave e le rendono ricorrenti. “I’m so busy” (“Sono così impegnato”), la battuta di un imprenditore americano, è incalzante, lascia la sensazione di sopraffazione e accompagna diverse scene iniziali. A queste parti, guidate da tamburi e percussioni, si susseguono parti più lente e riflessive in cui si analizza il ruolo presente e futuro delle tecnologie

After Work, quale futuro ci aspetta?

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È Noam Chomsky ad auspicare un cambiamento di paradigma: che la tecnologia venga usata sempre più su lavori automatici e pericolosi, per lasciar spazio alle persone di dedicarsi a lavori creativi. E se questo dovesse portare a una disoccupazione di massa? La risposta arriva poco dopo. Tra discorsi motivazionali e categorizzazioni dei lavoratori – impegnati, non impegnati, attivamente disimpegnati – il documentario sfiora temi sociali come il reddito di base universale, attraverso le parole di Elon Musk e Yanis Varoufakis, e le politiche e campagne di sensibilizzazione che invitano a trascorrere più tempo in famiglia.

La domanda conclusiva che il regista di After Work rivolge agli intervistati fa spazio a pause di silenzio imbarazzato che ci fa capire quanto siamo ancora lontani da questo scenario: “Cosa faresti se prendessi soldi senza lavorare?”.


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Nata e cresciuta a Milano, laureata in lettere ed editoria, appassionata e lavoratrice del cinema. Trovo nel documentario in tutte le sue forme e modalità il mezzo ideale per rappresentare, conoscere e riflettere sulla realtà.

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