Bellezza eterea, garbo, malinconia negli occhi e una naturalezza sofisticata da commedia: Andie MacDowell compie oggi 65 anni. Il volto dell’attrice statunitense è rimasto icona e immagine intangibile di un certo tipo di cinema, quello segnato da un sentimentalismo evasivo, sognante, ancora sostenuto da un pubblico che nelle rom-com riponeva le aspettative di una fuga ebbra di idealizzazione.
Al centro degli anni ’90, tra i primi giochi con il digitale, in mezzo alla proliferazione dei cult, a monte della fioritura dei nuovi maestri della regia, c’era anche e ancora spazio per un certo tipo di commedia romantica. E in quello spazio, divertito ma brillante, fioriva il campionario filmico dell’attrice statunitense. Sullo schermo quasi sempre formalizzata in un’idea di donna emancipata e musa (in)volontaria di quel percorso formativo, ed edificante, in cui venivano dissezionati tutti i suoi comprimari maschili.
La doppia sorpresa degli esordi di Andie MacDowell
Due debutti tracciano gli inizi della carriera di Andie MacDowell: Greystoke: La leggenda di Tarzan, il signore delle scimmie (Hugh Hudson) e Sesso, bugie e videotape (Steven Soderbergh). Il primo, del 1984, una stroncatura della critica e un fiasco talmente ingente da richiedere il ri-doppiaggo dell’attrice Glenn Close; il secondo, nel 1989, la consacrazione in una Hollywood stregata dalla sua performance.
Si potrebbe dire facile, in un esordio al lungometraggio così sfolgorante come quello di Soderbergh (il film vinse la Palma d’oro a Cannes e una sfilza di candidature ai premi più importanti), in realtà l’intimità emotiva e l’equilibrio interpretativo della MacDowell furono davvero significativi nel dare corpo e credibilità al viaggio introspettivo della sua Ann.
Sesso, bugie e videotape è un diario voyeuristico diramato sui tre elementi drammaturgici che gli danno il titolo. È un occhio che osserva, spia e si addentra nella dimensione più privata della sfera umana, la sessualità, verbalizzandone terapeuticamente le ossessioni, le nevrosi e le consapevolezze, sempre mulinando intorno ai quattro poli caratteriali di nemesi e complementi.
L’autorialità di Soderbergh mette in moto una regia che sguscia tra le superfici, sbirciando con il filtro del medium la riservatezza quotidiana dei suoi personaggi e vincolando lo spettatore a prendere parte ad un gioco maneggiato dal potere onnipresente, riproduttivo e rappresentativo, dell’immagine. La tonalità interpretativa avanza in sottrazione e scommette tutto sulla raffinatezza delle parti, dove una giovanissima Andie MacDowell dimostra, previdentemente, di essere tagliata per incarnare una certa tipologia di femminile.
Con buona pace delle commedie.
I classici, Green Card e Quattro matrimoni e un funerale
Approdo nel cinema americano per Gérard Depardieu, Green Card- Matrimonio di Convenienza riecheggia cenni nostalgici alla vecchia screwball comedy. Peter Weir, reduce dal successo de L’attimo fuggente, dirige un film con alcuni crismi del sottogenere: due protagonisti inizialmente incompatibili finiscono per innamorarsi a seguito di situazioni ed eventi paradossali; lo fanno attraverso un racconto elegante di umorismo, dove il dialogo prevale sull’azione, e al termine di una serie infinita di battibecchi personali e scontri tra visioni del mondo, rinsaldati da un rimarcato interclassismo.
Costretti a una convivenza – e conoscenza – forzata, i due affronteranno un viaggio turbolento di reciproca compensazione. A cavallo tra francesità e americanità, il conflitto è quello atteso tra culture, quello classico tra natura e civiltà, anatomico nelle contrastanti corporeità dei due personaggi. Abiti svolazzanti, grazia nei modi, femminilità disinvolta: quello interpretato in Green Card è il primo dei ruoli che vedono Andie MacDowell vestire i panni di donne ammalianti, spigliate, intriganti, affabili e determinate. Green Card è una storia d’amore dai tempi invertiti, brucia le tappe con un matrimonio e poi torna indietro all’innamoramento, congedando lo spettatore in un finale circolare che ha il sapore di un nuovo inizio dolceamaro, drammatico e per questo memorabile.
L’altro classico da commedia è valso alla MacDowell la terza candidatura ai Golden Globe (dopo quelle per Sesso, bugie e videotape e Green Card). Quattro matrimoni e un funerale (Mike Newell) sono due ore cristallizzate tra i punti cardine che dettano il ritmo del film: i matrimoni di un gruppo di scapoli incalliti, il funerale di uno di loro e il passaggio lento ma risolutivo nelle tappe evolutive di un’età e una società che richiedono sistemazione. Il sottotesto revisiona, come nel precedente Green Card, il matrimonio come istituzione, ridicolizzandone la fragilità con un humor pungente che si muove insolente ma idealista verso la ricerca di un’autenticità emotiva, prima che costitutiva.
Charles (Hugh Grant) e Carrie sono la sintesi della dispersione affettiva che riverbera nel film, entrambi incapaci di affidarsi a legami duraturi e distratti nel riconoscere le proprie reali necessità. Lei è una donna elegante, smaliziata, pienamente a suo agio con la propria sessualità. Lui è instabile tra le relazioni, fanciullesco, perennemente in ritardo sul tempo della propria vita. Si accontentano, con difficoltà, di una passione condivisa al rintocco dei matrimoni di cui sono ospiti, riconcorrendosi a-sincronizzati in un sentimento ogni volta giusto, ma al momento sbagliato.
Ovviamente l’epilogo li premierà, coordinandoli in una promessa d’amore sotto la pioggia battente, che risuona un impegno inviolabile: “Credi che il fatto di non sposarmi è una possibilità che in qualche modo potresti valutare? Voglio dire, per il resto della tua vita”
L’intramontabile, Ricomincio da capo
Il film di Harold Remis è un punto importante nella carriera di Andie MacDowell e un intramontabile classico nella storia del cinema, di quelli da consumare la domenica mattina, all’infinito, recitando ogni battuta a memoria. Il loop temporale in cui viene inghiottito l’istrionico meteorologo Phil (Bill Murray) è il pretesto narrativo per l’intercedere di una commedia che dietro alla patina del romanticismo nasconde lo scheletro di una riflessione dallo spessore esistenzialista.
La MacDowell è Rita, una produttrice televisiva inviata insieme al protagonista a documentare il folklore orbitante intorno al Giorno della marmotta, reale ricorrenza americana chiamata ad indicare le sorti metereologiche del restante inverno. Il 2 febbraio è il giorno che Phil è costretto a rivivere all’infinito, ingolfato dentro a una temporalità indefinita (potrebbero essere settimane, come decenni) che lo costringe a fare i conti con se stesso.
Un viaggio cadenzato, puntellato dallo scioglimento dell’individualità di Phil in plurime identità, prima di portare a compimento una redenzione che passa attraverso la coscienza del tempo e dell’azione.
L’assenza di determinismo che pilota Ricomincio da capo ne sancisce la ricchezza di pensiero, affidandosi a un libero arbitrio che impedisce a Phil di poter essere ogni giorno la stessa persona, pur in una quotidianità routinaria e inghiottente, scommettendo con ottimismo, ma anche realismo, in un percorso quasi terapeutico di riconciliazione con se stesso.
Un inno alla vita che passa tramite la morte e pulsa di speranza nell’immagine simbolica della stessa MacDowell. Se al centro dell’opera di Ramis c’è il tempo, circolare ma provvidenziale nel tentativo di consapevolizzare, Rita si fa suo significato, consentendo a Phil di aggrapparsi a una forma vitale di immanenza. È lei, ci dice chiaramente il film, a guidarlo spiritualmente, tracciando quel sentiero che lo porterà a diventare realmente un uomo migliore, guadagnandosi il proprio futuro.
L’amore che passa attraverso la conoscenza di sé, dell’altro e soprattutto il cambiamento è la chiave di una storia che sa toccare l’emotività senza fermarsi ai suoi strati superficiali, concedendo a chi guarda il respiro di una visione leggera anche quando incasellata dentro ai lembi di un retro-pensiero dal sapore più complesso. Allo spettatore la scelta.
C’è ancora spazio per le commedie romantiche?
Sebbene protagonista di titoli dal taglio ancora più scanzonato, eccentrico e rocambolesco, la carriera di Andie MacDowell ha avuto la fortuna di passare per sceneggiature solide, trainate da un romanticismo ispirato e sorrette da una narrazione stratificata, briosa ma catchy nel sedurre l’intrattenimento spettatoriale. È stata icona di un femminile ben contornato, precisamente intagliato in personalità energiche e accattivanti, modellate su più facce e sempre legate a un’idea forte di indipendenza e risolutezza valoriale.
Ciondolando tra le categorie, è facile rendersi conto di come la commedia funzioni da airbag dei generi cinematografici. Un momento di puro escapismo tenuto a bada da un elemento cardine: il controllo. Delle rom-com si conoscono a menadito le grammatiche, i personaggi, le evoluzioni e gli scioglimenti. Si sta tranquilli, distaccando testa e sentimenti, nella godibilità di una fruizione spensierata e prevedibile. Andie MacDowell è figlia di un tempo in cui la spensieratezza era ancora un valore conseguibile ed è il physique du rôle di un genere ancora in grado di rispondere alle esigenze del suo pubblico, cementificandosi nell’immaginario collettivo.
Oggi alla commedia è stato estirpato il contesto: probabilmente non è trascorso il tempo necessario per introiettare i cambiamenti di una società digitalizzata e modellizzata, in prima istanza, dalle espressività di altri mezzi comunicativi. Il cinema arriva al passaggio successivo, trovandosi di fronte alla sfida difficile di dover naturalizzare, per rappresentare senza problematizzare o mortificare, una realtà cesellata da un sentimento nebulizzato. Polverizzato in nuove (in)stabilità relazionali, esperito tramite modalità altre di interconnessione (i social, le dating app per dirne alcune) e disseminato nella necessità di accogliere – ben venga – ogni sfera dello spettro emotivo/sessuale.
Nel tentativo disperato di abbracciare tutte le esigenze di una contemporaneità soggiogata a un maniacale realismo tematico e rappresentazionale, si è finiti per inceppare in un proliferare incerto di prodotti paradossalmente votati a un irrealismo quasi assoluto, inzuppato di genericità e inconsistenza.
Attualmente, e basta guardare alla sala, c’è sempre meno spazio per il tipo di intrattenimento che le rom-com sono disposte ad elargire, forse ormai eccessivamente flesse verso un bias di impoverimento narrativo. Non che ci si aspetti impegno e senza negare il guilty pleasure a tinte trash che si ricerca nelle stesse.
Sembra, però, che il tempo dell’evasione sia rivolto altrove. Magari verso forme audiovisive diversificate, magari verso il sensazionalismo, magari verso la serialità, per citare uno dei lavori più riusciti della MacDowell contemporanea: quell’onesto, crudo e intimamente toccante racconto di vita che è Maid.
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