fbpx
A Real Pain

A Real Pain, o l’ingombro dell’eredità emotiva

12 minuti di lettura

Dove si colloca la vita in mezzo alla memoria e al dolore? Dove si posa l’identità fra le spinte ingombranti di un’eredità emotiva storica e privata? Jesse Eisenberg se lo domanda e ce lo domanda per tutta la durata del suo viaggio fisico e riflessivo tra gli stadi di una coscienza che si contorce per rimanere a galla. Fresco vincitore di un Oscar, A Real Pain vagabonda per la Polonia e i legami familiari, sale e scende dai mezzi che brancolano in fondo agli abissi dell’introspezione identitaria. Si arresta in rispettoso silenzio sull’esame intimo e toccante di una sofferenza scandagliata in ogni sua variante personale e universale.

Mai consolatorio o frontalmente rassicurante, A Real Pain posiziona in corrispondenza dialogica il vissuto dei personaggi con l’urgenza di onorare le proprie radici ebraiche restituendo alla memoria una dignità scovata fra le derive del turismo legato all’Olocausto e la complessità psicologica di un orrore rievocato di generazione in generazione. Un dolore vero, reale e inaspettato che progressivamente erode le difese dei suoi protagonisti. David e Benji sono le parti complementari di un tutto profondamente umano, stratificato nelle pagine di un film che alle sue alterità domanda insistentemente: quali sono le vostre strategie di sopravvivenza? Dove vi rifugiate quando la desolazione inonda le vostre esistenze? Esiste, forse, un solo modo di soffrire?

A Real Pain: in viaggio fra le differenti correnti del dolore

I protagonisti di A Real Pain

Una colonna sonora immersiva scandisce il passo di un piccolo gruppo di individui che dal Monumento agli Eroi del Ghetto si sposta a quello all’Insurrezione di Varsavia, culminando nella visita sorda, trattenuta e sospesa al campo di concentramento di Majdanek. Il fiume di parole di cui è fatto A Real Pain si nutre di un acceso dibattito sui temi della spersonalizzazione aneddotica di quel tour del dolore turbinoso, difficilmente collimabile con le differenti modalità di comunicazione che legano i partecipanti ai loro personali patrimoni emotivi.

Fra i molti, quello di Benji (Kieran Culkin) è sicuramente il più irrequieto, disinteressato a ovattare il proprio sentire o quella brutta sensazione di disagio che racconta di contraddizioni e (s)comodi privilegi. I suoi compagni di viaggio – cugino David compreso (Jesse Eisenberg) – con il loro retaggio fanno altri conti e altre riflessioni, spintonando per sensibilizzarsi sulla sfaccettata soggettivazione con cui ognuno attraversa il dolore.

Ma Benji è esuberante, scostante, contagioso e squillante nelle sue vampate di vita quanto impetuoso e imprevedibile nei contraltari di disperazione. Quella gita fra i suoi luoghi identitari la inizia e la chiude nella percezione confortevole del non-luogo dell’aeroporto, nella provvisorietà di appartenenza a una vita da pendolare, incapace di progettare. Il turismo della memoria lo abita invece stretto, divincolato tra attimi di ribellione e intensissimi momenti di commozione. Nei cui occhi si legge un’onestà non confinabile, sintomo esibito di un’emotività tenuta a distanza così ravvicinata da potercisi consumare.

Ciò che lo circonda è per lui uno spazio attivo di ascolto e di comunicazione: un luogo sensibile e sicuro da cui emergere ogni volta illuminato, scintillante o imbrattato di eccessi e respingenti fraintendimenti. Lo si ama e lo si odia, si desidera essere lui anche quando lo si vorrebbe uccidere. È lo stesso David a confessarlo in uno dei suoi rari picchi di intensità, durante una delle cene di quel viaggio in cui non fa che sentirsi fuori posto, impacciato e riluttante. Un’esposizione di vulnerabilità deformata presto in dramma, nella fuga verso un isolamento dove poter drenare l’autenticità dell’emozione appena sperimentata.

Benji è in qualche modo la sua nemesi. È empatico, sensibile e abilissimo recettore delle correnti emotive dimenate attorno lui. A volte però attacca, si difende da possibili delusioni rifiutando all’umanità qualsiasi forma di fiducia, compresi lo spazio e il tempo necessari a comprendersi o incontrarsi a metà strada. Così elemosina negli altri l’affetto e l’accettazione che non riesce a stanare in sé, evadendo verso lidi malinconici che proiettano un passato più sereno e invariabilmente percorribile: dove David era sempre il suo compagno di avventure e la nonna ancora viva, disponibile a prendersi cura della sua fragilità.

“Non si può andare in giro per il mondo ed essere sempre felici”

Jesse Eisenberg e Kieran Culkin in una scena di A Real Pain

La recente morte della nonna è la ragione per cui A Real Pain li mette in viaggio. Lo strappo doloroso di un’assenza che su Benji ha gravato più di tutti e per cui David ha deciso di organizzare quel ritorno alle origini, ripartendo da Varsavia e dall’ultima casa abitata dalla loro antenata prima di rifugiarsi a New York. Il loro vissuto li tiene legati, aggrovigliati nella tela di un affetto condiviso da bambini e smarrito nella crescita.

Disperso come il disincanto vulnerabile di un piccolo David mitigato dagli anni, indurito in condotte misurate, maniacali e piene d’ansia. Benji vorrebbe riscovare il bambino che fu, la pungente sensibilità del passato. Ma ora David è un involucro schivo, distante da quello stato fragile da cui un tempo si sentiva intimidito. Ora è perfettamente inserito negli ingranaggi della società, a disagio nei momenti di convivialità, disconnesso da un’emotività convertita in controllo e responsabilità.

I cugini di A Real Pain sono i pezzi di un puzzle irregolare, disomogeneo, frantumato nei tasselli di un multiforme mosaico umano. Personaggi insoliti nella loro sincera risonanza con il vero, antitesi perfette dentro cui innestare l’eco di un’incertezza esistenziale che fra premure, errori e vecchi rancori ambisce ancora a una pacificazione.

A Real Pain: l’Oscar a Culkin passa per un sapiente studio sui personaggi

Una scena di A Real Pain

Un road movie come A Real Pain si poggia su fondamenta collaudate, provenienti da una tradizione di genere che spesso associa al viaggio l’accidentata descrizione dell’anatomia di un legame particolare. Irriverente e introspettiva, la penna di Eisenberg compone una sceneggiatura resistente (forse troppo), narrativamente puntuale nel sagomare le geometrie dei suoi scomposti temperamenti caratteriali. Tipizzati sulle coordinate dei protagonisti dei buddy movies, su quell’elevata intensità di contrasto utile a rilevare tutte le venature che striano l’animo umano. Per poi da lì ripartire e naufragare verso un viaggiare confidenziale, girovagando in mezzo alla catarsi di personalità in cerca di compensazione e comprensione, di un avvicinamento empatico all’unica cura disponibile alla propria disperazione: quella che avvalora il vicendevole riconoscimento.

L’esplorazione della loro solitudine diviene per A Real Pain il racconto della progressione di un conflitto riservato, la proiezione di sensi di colpa e insicurezze, l’orizzonte deformato di un’insondabile inadeguatezza comunicativa. Culkin e Eisenberg sono le colonne portanti di una storia densa di significato, piegata alla ricerca della propria verità. Auto-sabotante e affascinante, il volto di Culkin si guadagna l’Oscar arricciandosi in nevrosi irrisolvibili, straordinariamente imbavagliate a un’espressività rivelatrice di tormenti e complessità. Dal canto suo, Eisenberg è quello di sempre: ansiogeno e frenato, cinico e sgraziato, profondo in tutte le occasioni necessarie.

A Real Pain, l’universale solitudine dello stare al mondo

Un'immagine di A Real Pain

A questa girandola fisica e mentale prendiamo parte fra risate e momenti di fermo, dinamici nel precipitare in catene d’immedesimazione che assorbono e si aggrappano alle paure e le ansie che i personaggi sintetizzano con il loro dialogare. Il trauma che li accomuna perimetra l’ordigno su cui ciondola da sempre l’esistenza: la natura solitaria e mai elitaria dell’esperienza del dolore.

Senza alcuna insistenza patetica A Real Pain mette in scena la sofferenza e in contesa le sue diramazioni, addensando nel privato il collettivo e circuendo a tutto tondo i contorni di una gravosa eredità emotiva. Storica, quando esteriorizzata da un orrore propagato e attualizzato nella presa di coscienza del presente; personale, quando evocata dall’intralcio di un bagaglio di emozioni da imparare a maneggiare.

A Real Pain prova a proteggersi dalla valanga di retaggi provenienti dal passato, congiungendosi al tempo intimo di un’evoluzione che ci ricorda di incontrarci in territori universali, oltre limiti autoimposti, dove il dolore ci riallinea nel suo stringerci e respingerci fra il contatto e le distanze. In quel mucchio disordinato e malfermo di legami personali A Real Pain setaccia anche il rapporto familiare, allestendolo a tappa indispensabile per la ricerca della propria identità ma anche a genesi di fardelli che si trascinano nel tempo, appesantendo il baricentro esistenziale di una vita che aspira in tutti i modi a ritrovarsi.

Una volta tornato alle proprie radici A Real Pain si arresta. E con quelle radici dialoga, si chiede cosa farsene, quanto disfarsene, in che modo riconnettercisi senza farsi risucchiare. Di slanci affettivi in brutali lampi di realtà, sul finire A Real Pain ritorna su se stesso. Perché la sua non è l’emanazione di un’epifania: è il resoconto schietto di un fluire circolare, dove i grigi hanno la meglio e gli scudi emotivi si ammaestrano senza lenirsi, l’esistenza tramanda filastrocche malinconiche e il dolore resta vero, reale e instancabilmente inaspettato. Ciclico come l’attitudine di chi ha paura di cambiare o forse ancora non accetta di potersi lasciar salvare.


Seguici su InstagramTik TokFacebook e Telegram per sapere sempre cosa guardare!

Non abbiamo grandi editori alle spalle. Gli unici nostri padroni sono i lettori. Sostieni la cultura giovane, libera e indipendente: iscriviti al FR Club

Laureata in Cinema e Comunicazione. Perennemente sedotta dalla necessità di espressione, comprensione e divulgazione di ogni forma comunicativa. Della realtà mi piace conoscere la mente, il modo in cui osserva e racconta le sue relazioni umane. Del cinema mi piace l’ascolto della sua sincerità, riflesso enfatico di tutte le menti che lo creano. Di entrambi coltivo l’empatia, la lente con cui vivere e crescere nelle sensibilità ed esperienze degli altri

Lascia un commento

Your email address will not be published.

Questo sito utilizza Akismet per ridurre lo spam. Scopri come vengono elaborati i dati derivati dai commenti.