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Copertina Emilia Pérez

Perché tutti parlano di Emilia Pérez?

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12 minuti di lettura

È quasi impossibile non avere ancora sentito parlare di Emilia Pérez. Nel calderone di premi, polemiche e posti in prima fila per la prossima awards season, il film di Jacques Audiard ci cade addosso furibondo, eversivo, sgrammaticato e divisivo. Premio della giuria a Cannes e Miglior interpretazione ex-aequo per le attrici protagoniste, vincitore di quattro Golden Globes e abilissimo collezionatore di candidature, Emilia Pérez è approdato finalmente nei nostri cinema.

Come quasi tutto il cinema del regista francese, anche Emilia Pérez si presenta amorfo e vitalissimo, brutale e teneramente umano, difficilissimo da incasellare. Un variopinto concentrato di slanci visivi e stratificazioni narrative, tenute insieme con inaspettato equilibrio da un’esplosione di generi e registri che esplorano il materiale drammaturgico per farne contenuto febbricitante, vivacissimo, poco incline al compromesso. Musical piegato alle logiche del thriller, coreografato dalle leggi del gangster movie e innervato di un ciclico e nefasto melodramma umano, teso irrimediabilmente alla tragedia.

Dell’autorialità versatile di Audiard ritornano gli estri stilistici e le ossessioni narrative, racconti di una collettività claudicante nella sua viscerale ricerca di una redenzione, un movimento, una trasformazione. Questioni tra il politico e il personale ancora una volta prive di velleità educative, irregolari sulle proprie rampe di denuncia sociale. Come sempre, quindi, storie che negoziano la dignità umana tra gli anfratti del suo decadimento, nelle zone d’ombra, oltre il binarismo del bene e del male e le catene costrittive di un contesto fisico, sociale o ambientale paralizzante.

Emilia Pérez è tutto il cinema di Jacques Audiard, esondante ed eccessivo nei meriti tanto quanto nei demeriti. Una storia di violenza, amore e morte in cui “ascoltare significa accettare”. Coercitivo, come il destino dei personaggi che quel cinema lo abitano da anni.

Di cosa parliamo? Di violenza, di amore e di morte”

Le canzoni sono il tessuto connettivo di questo film carnevalesco, il terreno in cui far convergere l’orrore, la miseria e ogni svolta decisiva all’andatura narrativa di Emilia Pérez. Loro portano avanti la trama, sonorizzano con onestissima durezza ciascun passaggio necessario all’approfondimento dei personaggi, danzando tra le svolte cruciali della storia. Il primo momento musicale mappa ferocemente tutti gli ingredienti del racconto cui stiamo per assistere: violenza, amore, morte e una giustizia che si compra.

Emilia Pérez debutta qui, dalla fotografia livida che inchioda Rita Moro Castro (una stratificata Zoe Saldana) a un presente sconfortante, dequalificata dalle discriminazioni razziste e maschiliste della società di cui fa parte. È lei, avvocato di uomini rei, burattino di un sistema corrotto, a introdurci bruscamente al cuore del film.

Trascinata con la forza, la testa incappucciata di Rita sobbalza in mezzo al dominio incontrastato dei cartelli del narcotraffico messicano, in quel deserto lunare esplorato a ritmo di musica, sullo sfondo di un paese boccheggiante e decomposto dal contagio virulento della sua criminalità. Rapita e condotta al cospetto di uno dei più spietati boss della droga, Manitas del Monte (Karla Sofía Gascón), Rita non ci mette molto ad accettare quanto da lui richiesto, a immaginare per sé un futuro economicamente migliore. D’altronde, in questo deformato universo volteggiante, tutto è in vendita, perfino la propria identità.

Se quasi tutti i personaggi di Audiard si erano già visti incagliati nella restrittività di un vincolo che ne impediva la piena integrazione sociale, costringendoli ad arrangiarsi per sopravvivere e re-inventarsi, (la sordità di Sulle mie labbra, l’amputazione di Un sapore di ruggine e ossa, la prigione de Il profeta sono solo alcuni degli esempi), Emilia Pérez quel vincolo lo declina in disforia di genere dentro un mondo violento e patriarcale, raccontandoci della transizione come epifania di un patteggiamento. Tra morte e opportunità di rinascita.

Manitas, infatti, ha un desiderio da tutta la vita: diventare donna. Ricongiungersi a sé, riconoscendosi in un corpo che l’appartenga e un’identità che le consenta redenzione. È a Rita, quindi, che Manitas affida l’onere di trovargli un chirurgo che lo operi, è a lei che chiede aiuto nell’inscenare la sua morte; è sempre alla stessa donna, quattro anni dopo, che delega il compito di ricongiungerla con i suoi figli, di cui ora non sarà più padre, ma solamente “zia”. Solo così Manitas potrà fintamente morire ed Emilia Pérez (sempre Karla Sofía Gascón) finalmente nascere.

Sono sempre stato due: il mio vero io è la bestia che mi insegue come un’ombra

Zoe Saldana in una scena di Emilia Pérez

Se è vero che ogni ostacolo che Audiard ha frapposto tra i suoi protagonisti e la vita ha spesso agito da prefigurazione di una possibile rifioritura, è altrettanto vero che il regista si è ricorsivamente mosso su crinali dissestati, sbilanciati tra riscatto e definitiva disgregazione. Emilia Pérez è anch’esso un film dicotomico, triplicato in un inno di speranza che aspira a una piena liberazione del femminile, solidale fra le sue componenti interne. Emilia Pérez, però, è anche un film che alla speranza ammanetta la tragedia, l’impraticabilità della fuga e l’espiazione.

Di Audiard, allora, staniamo ulteriori ricorrenze narrative: il conto da pagare con la violenza, il gravoso fardello di un passato difficile da rimuovere, prevaricante su qualsiasi seconda opportunità. Pertanto, quando Emilia Pérez ricompare nella vita della sua ex-moglie Jessi (Selena Gomez) e dei loro figli, l’affermazione di una nuova identità non basta a salvarla da se stessa.

È sufficiente per un breve arco di tempo, quello in cui ogni donna di questa storia assapora le potenzialità di un’esistenza cullata dall’amore, il perdono e la riscoperta di sé. È sufficiente per il tempo in cui Emilia e Rita dirigono la Lucecita, una no-profit (finanziata dai soldi sporchi di Manitas) che si occupa dei desaparecidos, di riunire le famiglie ai corpi dispersi, uccisi o dimenticati, avvinti da un dolore originato dalla stessa crudeltà che ha imbrattato le mani di Manitas e di cui ora Emilia si fa contraltare, ereditando gratitudine.

Madonna profana della sua gente, è così che il cortocircuito dell’esistenza di Emilia Pérez diventa paradosso inestricabile, il presupposto di partenza della fatalità della sua storia, il ciclico ritorno di “quella bestia che la insegue come un’ombra”. Nata con l’estorsione, il ricatto e la sopraffazione, Emilia Pérez è risorta dalle ceneri posticce di una violenza che ha lasciato germi, contaminando le viscere di una personalità assoggettata al controllo delle vite altrui, all’impetuoso deragliamento del senso etico.

Emilia Pérez tra polemiche e lusinghe

Selena Gomez in una scena di Emilia Pérez

Emilia Pérez estremizza con intensità le fratture umane di cui parla, sgravandone il peso narrativo con un’apparente e controversa semplificazione dei temi toccati. Manieristica e audace, l’intenzione drammaturgica di Audiard non sembra interessata al farsi racconto educativo, quanto piuttosto al tenersi stretta la sua eccentrica (ma centrata) regolamentazione dell’arte stessa del raccontare.

Che tali posizioni prestino il fianco a critiche, va da sé, non stupisce affatto. Recentemente, infatti, l’anacronistica e limitata rappresentazione della donna trans, la scarsa aderenza linguistica ed etnica del cast scelto, l’imprecisa e superficiale ricostruzione del contesto culturale del Messico e alcune – discutibili – dichiarazioni del cineasta e della troupe hanno trainato Emilia Pérez al centro di una vertigine di polemiche. Indolenzite, tuttavia, dalla polarizzazione di un dibattito dalle legittime istanze critiche ma ancora una volta non disponibili alla contemplazione delle complessità.

Quanto è vero che alcuni tradimenti e altre parzialità, pre e post diegesi, depotenziano l’autenticità di una storia che avrebbe potuto (e su alcuni punti dovuto) fare di meglio; tanto è vero, parimenti, che Emilia Pérez non si può semplicemente buttare via. Audiard vive, da sempre, delle sue imperfezioni, di eccessi e di contrasti che ne attestano il coraggio e insieme ne profilano le debolezze. Una simile stravaganza merita, però, di occupare un posto tra le esperienze cinematografiche da esperire, lasciando a ciascuno la responsabilità del proprio sentire.

Venata da un impianto teatralizzante, dal convulso movimento della macchina, dallo sfavillante design delle scenografie e dei costumi, dai cromatismi di una fotografia asservita alle evoluzioni dei protagonisti e straniata tra accumuli linguistici e mescolamenti di generi, anche questa Emilia Pérez è un’opera completamente avulsa da limiti. Straripante e sezionata dalla frammentazione concitata di un montaggio che dal dialogo balza alla musica, dalla musica alla violenza, dalla violenza alla dolcezza e infine all’inevitabile tragedia. Umorale, imprudente e radicale, come solo i film più divisivi sono in grado di fare. Nel bene, nel male e in ogni rimanente via di mezzo.


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Laureata in Cinema e Comunicazione. Perennemente sedotta dalla necessità di espressione, comprensione e divulgazione di ogni forma comunicativa. Della realtà mi piace conoscere la mente, il modo in cui osserva e racconta le sue relazioni umane. Del cinema mi piace l’ascolto della sua sincerità, riflesso enfatico di tutte le menti che lo creano. Di entrambi coltivo l’empatia, la lente con cui vivere e crescere nelle sensibilità ed esperienze degli altri

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