Quella che segue non è una vera e propria recensione di Qui non è Hollywood (già nota come Avetrana – Qui non è Hollywood), la serie prodotta da Grøenalandia Group e diretta da Pippo Mezzapesa – autore del film Ti mangio il cuore con Elodie – sul caso Avetrana. Quanto segue si pone, piuttosto, come una riflessione in merito al caso mediatico che si è venuto a creare attorno al prodotto, la cui release sulla piattaforma di Disney+ è stata bloccata per una settimana a seguito di un ricorso d’urgenza portato avanti dal sindaco del comune tarantino.
Una riflessione scaturita e alimentata, però, dal fatto che chi scrive ha avuto modo di vedere tutta la serie, proiettata alla 19a Festa del cinema di Roma nella sezione Freestyle, e che, perciò, ha potuto constatare la grottesca situazione per cui la drammatica e vicenda della quindicenne Sarah Scazzi si ritrovi puntualmente al centro dei riflettori e dei media nazionali e non solo.
Cronologia del caso mediatico Avetrana – Qui non è Hollywood
Qui non è Hollywood è una serie prodotta da Grøenlandia Group – la casa di produzione di Matteo Rovere, dietro alcuni progetti italiani molto apprezzati da pubblico e critica come La legge di Lidia Poët (la cui seconda stagione è imminente), Mixed by Erry e Supersex – per Disney+, piattaforma per cui la serie è destinata. La produzione della serie, basata sul libro Sarah. La ragazza di Avetrana di Carmine Gazzanni e Flavia Piccinni, è stata annunciata su Instagram il 15 settembre 2022, dunque più di due anni fa, assieme al cast in cui figurano alcune delle personalità più apprezzate del piccolo schermo nostrano – Vanessa Scalera, Anna Ferzetti, Giancarlo Commare – in alcuni dei ruoli principali della serie.
La serie sul caso Avetrana incontra un prima ondata di polemiche quando viene rilasciato un primo poster: esso viene considerato da non pochi utenti di social come X e Instagram “imbarazzante”, “cringe” e “irrispettoso”. Una polemica, questa, nata e morta su Internet nel giro di pochi giorni – anche se ha portato degli strascichi importati, come video e contenuti di noti creator online che si scagliano apertamente contro questa scelta, gettando una cattiva luce sul progetto -; polemica che però non ha inquinato la prima della serie, avvenuta senza problemi lo scorso 18 ottobre presso la 19a Festa del cinema di Roma.
La situazione si è tuttavia complicata il 23 ottobre, a soli due giorni dalla release della serie su Disney+. Il tribunale di Taranto, infatti, ha accolto il ricorso d’urgenza firmato dal sindaco di Avetrana, Antonio Iazzi, il quale ha commentato così la decisione del giudice:
L’Autorità giudiziaria si è mostrata sensibile al pregiudizio che potrebbe patire la comunità avetranese, in virtù della denominazione della serie, sulla scorta del fatto che tale intitolazione potrebbe indurre gli utenti del prodotto cinematografico ad associare la città di Avetrana alla vicenda di cronaca nera, suscitando negli stessi l’idea di una comunità potenzialmente criminogena, retrograda e omertosa.
Secondo il sindaco di Avetrana, dunque, la presenza nel titolo della serie del nome della cittadina (originariamente, infatti, la serie è stata chiamata Avetrana – Qui non è Hollywood) potrebbe gettare una cattiva luce sulla sua comunità, la quale diverrebbe indissolubilmente associata agli eventi raccontati, al tremendo omicidio avvenuto oramai quindici anni fa. A seguito di questa preoccupazione, dunque, sarebbe scaturito il ricorso, il quale è stato accolto dal Tribunale, con la sorpresa dell’opinione pubblica.
Proprio a seguito di questa scelta dell’autorità giudiziaria esplode il caso mediatico: la notizia si diffonde a macchia d’olio online e non solo. Sono migliaia i commenti di utenti dei vari social che partecipano alla discussione sotto post che comunicano la notizia, con opinioni fortemente discordanti tra loro: c’è chi gioisce per la mancata messa in onda del prodotto (“andrebbero vietate queste robe squallide”, “si dovrebbe evitare la spettacolarizzazione delle tragedie”) e chi invece si allarma per una possibile forma di censura (“una cosa vergognosa… non andrebbe dimenticata una tragedia simile”, “w la democrazia, ormai siamo in un completo regime”).
Su quest’ultima linea di pensiero si posizionano anche alcuni lavoratori del mondo dello spettacolo: a poche ore dalla notizia, infatti, viene diramato un comunicato stampa delle associazioni 100autori, Anac e WGI, le quali rappresentano il mondo degli sceneggiatori e degli attori. In esso, le associazioni dimostrano forte preoccupazione rispetto al caso di Qui non è Hollywood, a maggior ragione che tale esposto sia stato portato avanti dal sindaco della cittadina nel tarantino, oltre a rappresentare un precedente importante e potenzialmente dannoso per la libertà degli autori nel nostro Paese:
È un problema tutto italiano, che si è andato ad accentuare negli ultimi anni e che rende sempre più difficile per noi autori raccontare storie radicate nel reale. Siamo sottoposti continuamente a limitazioni e “censura”, a partire dalle case di produzione e dai broadcaster che per il timore di essere chiamati davanti al giudice e dover sospendere una produzione o una messa in onda finiscono per comprimere lo spazio espressivo di noi autori. È una condizione opprimente che rende quasi impossibile raccontare con efficacia la nostra società e le sue zone d’ombra, minando la verosimiglianza e la credibilità delle nostre serie e dei nostri film.
La situazione sembrerebbe essersi risolta nelle scorse ore rispetto a quando si scrive: nella mattinata del 29 ottobre, infatti, è stato ufficialmente comunicato tramite i canali social di Disney+ l’uscita della serie per il giorno successivo con il nuovo titolo, privato del nome della cittadina di Avetrana. Da Avetrana – Qui non è Hollywood a Qui non è Hollywood, insomma. Stando, tuttavia, a quello che si legge su una nota ufficialmente diramata dal colosso di streaming, la questione non è ufficialmente risolta da un punto di vista giuridico: l’udienza del tribunale di Taranto che coinvolge Disney e Groenlandia, infatti, si terrà comunque il prossimo 5 novembre.
Cos’è, veramente, Qui non è Hollywood?
Tutta questa polemica, per ovvie ragioni, è mossa principalmente da persone che il prodotto audiovisivo in questione non l’hanno ancora visto: attualmente, infatti, le uniche persone che hanno visto la serie sono i giornalisti in possesso di screener e link anticipati alla serie e gli spettatori della recentemente conclusasi kermesse festivaliera romana. Sorge dunque, a fronte di questo caos mediatico, spontanea la domanda: che cos’è (e com’è, in seconda battuta) Qui non è Hollywood?
Qui non è Hollywood in quattro puntate ricostruisce la vicenda dell’omicidio di Sarah Scazzi, dagli ultimi giorni di vita della ragazza fino all’arresto di Cosima Serrano, la zia della giovane vittima – interpretata da una formidabile nonché irriconoscibile Vanessa Scalera. Ogni puntata è costruita su un punto di vista sulla vicenda differente: il pilota racconta gli ultimi giorni della ragazza di Avetrana dal punto di vista della giovane Sarah, il secondo ripercorre il montare del caso mediatico che si generò attorno alla scomparsa della ragazza attraverso gli occhi di Sabrina Misseri, la terza racconta le maggiori svolte giudiziarie dal punto di vista di Michele Misseri, l’ultima invece riassume gli ultimi sviluppi vissuti da Cosima Serrano.
Questa scelta di scrittura e di struttura tradisce il vero intento della serie, vale a dire quello di costruire una serie di character studies, dei tentativi di analisi e di introspezione psicologica dei protagonisti della vicenda che ha coinvolto la città di Avetrana. La prospettiva adottata da Mezzapesa, dunque, è di natura critica verso i suoi personaggi, ritratti nella loro complessità rispetto alla narrazione televisiva che se ne fece all’epoca, la quale appiattì le loro figure a “i familiari della vittima” oppure, in tempi successivi, a “l’orco di Avetrana” nel caso di Michele Misseri.
Altro elemento che caratterizza Qui non è Hollywood è la vena critica verso la spettacolarizzazione mediatica che circondò il caso: i quaranta giorni circa della sparizione della piccola, infatti, furono incessantemente seguiti dalle telecamere di emittenti nazionali, fino ad arrivare alla celeberrima diretta di “Chi l’ha visto?” del 6 Ottobre 2010, in cui Federica Sciarelli comunica in diretta nazionale alla madre di Sarah, Concetta Serrano, la confessione di “zio Michele” e le indagini per il ritrovamento del corpo della piccola.
Quello di Avetrana è un caso emblematico di “pornografia del dolore” nella TV italiana – secondo solo al caso di Alfredino Rampi -, elemento che la serie di Mezzapesa non ignora affatto, ma che ritrae anzi in tutta la sua grottesca realtà.
Il tono con cui Qui non è Hollywood approccia la sua storia, dunque, è di natura estremamente seria, che dona dignità e gravitas all’intera vicenda.
Questo approccio, tuttavia, riassume perfettamente i pregi e i limiti dell’operazione televisiva di Pippo Mezzapesa: se, da un lato, questa serietà di approccio permette alla serie di avere un atteggiamento principalmente rispettoso ed etico nei confronti della vicenda narrata e dei suoi protagonisti – evento non proprio scontato in un mondo in cui, come abbiamo già approfondito, il true crime non risponde sempre a criteri di eticità ferrei -, dall’altro lato proprio questa serietà non permette alla serie di approfondire alcuni dei lati più profondamente grotteschi di una storia che a più riprese si dimostra come tale.
Uno degli elementi più interessanti e inquietanti della vera vicenda di Sarah Scazzi sono proprio i continui elementi ridicoli che costellano la vicenda, simboleggiati dalla figura di Michele Misseri, divenuto un vero e proprio meme online: situazioni come la sua dichiarazione per la quale avrebbe usato il suo “star raccogliendo i fagiolini” come alibi, oppure l’ammissione di colpevolezza “ho stato io”, ma anche il suo trattore sono diventati online oggetto di macabra ilarità anche a quindici anni dallo svolgimento dei fatti.
Un aspetto della vicenda, questo, che viene ignorato da Qui non è Hollywood – anche se, a onor del vero, appare il virale costume di Carnevale di Michele Misseri, uno degli eventi collaterali più macabri e memati sul Web della vicenda.
Questi aspetti, impossibili da ignorare se si vuole affrontare a fondo (come lascerebbe suggerire il titolo) il problema della feticizzazione del dolore da parte dei media e il trattamento della pubblica opinione, così esposta alla terribile vicenda di Avetrana, di casi mediatici oscuri tradiscono dunque l’impossibilità vera della serie, per la sua stessa volontà di raccontare una vicenda realmente avvenuta verso cui si vuole – e si deve – portare rispetto, di brillare oltre al suo essere un prodotto di consumo e di intrattenimento di ottima fattura.
Un taglio più artistico e libero, un punto di vista più fermo e radicale, infatti, avrebbe non solo alterato l’identità della serie, ma avrebbe anche potuto minare la sua eticità, elemento in cui la serie comunque scivola saltuariamente – si vedano, ad esempio, i presagi di morte che circondano la figura di Sarah nella prima puntata.
Al netto di quest’ultima affermazione, chi scrive ci tiene ancora a sottolineare, pur rischiando la ripetizione,che la serie Qui non è Hollywood è perlopiù rispettosa e attenta nei confronti soprattutto della vittima, come dimostra la struggente sequenza finale in cui Sarah, sulle note di Who Wants To Live Forever dei Queen, si allontana sola da casa Misseri, verso cui si dirigono tutti i giornalisti: oramai è stata dimenticata e abbandonata da tutti. Questa denuncia della necessità di rimettere a fuoco e di raccontare le storie delle vittime ben si incastra in un prodotto concepito proprio per evitare la deumanizzazione delle persone coinvolte, vittime e carnefici.
True crime: pregiudizi, etica e modalità di rappresentazione
È impossibile non constatare, soprattutto una volta visionato il prodotto finito, la grottesca situazione venutasi a creare attorno ad Qui non è Hollywood: una serie prodotta con l’obiettivo di riflettere sulla pervasività dei media che lucrano sulle tragedie personali di cittadini ritrovatasi coinvolta in una tempesta mediatica così pervasiva e discussa che deumanizza le persone coinvolte. La storia di Sarah Scazzi, infatti, continua a finire sotto i riflettori mediatici anche a quindici anni di distanza dai fatti – basti anche vedere le nuove interviste e dichiarazioni rilasciate da Michele e Valentina Misseri in televisione.
Al netto di questa infelice ricorsività della vicenda di Avetrana, le preoccupazioni del sindaco Iazzi possono risultare assolutamente legittime: gli esempi di true crime poco etici, che portano a rovinare la vita a numerose persone più o meno coinvolte nei casi che vengono raccontati, esistono e proliferano facilmente nella media-sfera. Al tempo stesso, tuttavia, molti elementi di questa situazione non giocano a favore della posizione del primo cittadino.
L’associazione del caso di cronaca al luogo geografico in cui è avvenuto, in primis, è una consuetudine ampiamente presente in Italia: la stessa città di Avetrana, prima della produzione della serie, era nota alla maggior parte della popolazione italiana primariamente per la vicenda di Sarah Scazzi; al tempo stesso, però, la stessa cosa può esser detta anche di comuni come quello di Novi Ligure, Correggio, Cogne, Firenze, Parma, ma anche di Via Carlo Poma a Roma, e via discorrendo.
Queste forme di associazione, tuttavia, non hanno mai generato forme di pregiudizio verso le comunità in cui queste vicende avvengono, e Qui non è Hollywood ne è la dimostrazione: la popolazione di Avetrana, infatti, nella serie è ritratta come vittima del circo mediatico che letteralmente infesta un paesino di seimila abitanti, presto riempito di ciarlatani, giornalisti assetati di scoop e gente affascinata dal macrabo, disposta a pagare per tour guidati nei luoghi in cui si consuma l’orrore. Gli unici “messi in cattiva luce” nella città di Avetrana sono gli appartenenti alla famiglia Misseri, i quali, stando alle indagini e alla sentenza della Corte di Cassazione, risultano gli esecutori materiali dell’omicidio della quindicenne.
Oltre a ciò, come sottolineano anche le già citate associazioni di sceneggiatori e attori, questo caso rappresenterebbe un precedente pericoloso per la libertà di artisti del cinema e non solo: la possibile censura di questo prodotto seriale, infatti, potrebbe in qualche modo portare a forme di censura – o anche di autocensura – da parte di quegli artisti che vorrebbero raccontare storie del nostro passato recente attraverso i mezzi artistici di cui si servono. Un qualcosa che, soprattutto nel clima politico in cui versa il nostro Paese in questo momento, non è possibile assolutamente permettersi.
In ultima analisi, questa forma di blocco verso Qui non è Hollywood rappresenta un momento e un modo per riflettere sulle modalità di rappresentazioni delle vicende di true crime, pratica che nel Bel Paese, e non solo, viene spesso dimenticata o poco approfondita.
Gli effetti negativi di queste forme narrative sulle vittime di questi eventi e non solo sono ben noti e già stati menzionati; eppure, la loro pervasività nel mercato dell’intrattenimento – basti pensare che, proprio nei giorni della polemica su Qui non è Hollywood, Sky e Chora Media hanno rilasciato con grande successo un nuovo podcast di Pablo Trincia (altro esempio virtuoso di produzione true crime in Italia, peraltro) incentrato sul caso di Rigopiano intitolato E poi il silenzio – Il disastro di Rigopiano – ci impongono inevitabilmente di cercare una soluzione che permetta una produzione e un consumo etici di questi prodotti, di cui evidentemente il mercato non può più fare a meno.
Ripensare le forme espressive, produttive e di rappresentazione del true crime rappresenta sicuramente una soluzione sul lungo periodo rispetto a queste problematiche, e non risolverà nell’immediato la questione imminente e presa in esame – cosa, per l’appunto, avvenuta con una semplice modifica del titolo della serie, una soluzione felice per entrambe le parti, perché da un lato permette alla comunità di Avetrana di non temere possibili ritorsioni e, dall’altra, al lavoro di centinaia di persone su questo prodotto di non esser stato buttato e cancellato.
Tuttavia, se c’è qualcosa che il caso di Qui non è Hollywood ci deve insegnare o portare a riflettere su, è proprio che nel nostro Paese è necessario ripensare alle modalità in cui il true crime venga promosso e visto: è solo con una fruizione consapevole, attraverso un fondato spirito e approccio critico alla materia e ai prodotti di cui fruiamo – da parte tanto dei produttori e degli addetti ai lavori quanto degli spettatori tutti – che potremmo continuare a raccontarci al meglio le storie che ci circondano, anche quelle più truculente, inquietanti e grottesche.
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