Il 10 novembre arriva nelle sale dei cinema italiani Boiling Point, il primo film che vede Philip Barantini nelle vesti di regista, interpretato da Stephen Graham e girato con un unico piano sequenza.
Un titolo evocativo
Fin dalla prima scena di Boiling Point ci domandiamo quando sarà questo “punto di ebollizione” che segnerà la rottura tra un “prima” e un “dopo”. Una rottura che, una volta iniziato il film, non possiamo far altro che immaginare essere tragica. Durante Boiling Point vediamo scaldarsi – oltre agli stellati piatti del ristorante – tutte le situazioni e i rapporti tra le persone, staff e clienti, che animano il ristorante.
Le diverse fila narrative, che sono tessute “dietro le quinte” della cucina e tra i tavoli della sala, corrono parallele e sembrano, man mano che si procede, sempre sul punto di deflagrare, ognuna in modo diverso. Infatti, essendo il ristorante un organismo che vive grazie alla cooperazione di tutti, basta un passo falso per mandare tutto a scatafascio.
Barantini fa un cinema che non sembra cinema
Ormai lo chef movie è un grande bacino di incontro di differenti generi cinematografici: è dramma, thriller, commedia romantica, permea anche la televisione, tra reality show e sfide culinarie. Cosa ha portato dunque di nuovo Barantini? Non è nemmeno la scelta registica di girare un unico piano sequenza che, seppur di alto livello e molto particolare, è già stata sperimentata, per citarne un paio famosi, da Hitchcock, pioniere con Nodo alla Gola, e da Iñárritu con Birdman, il quale ha però operato con tagli fantasma.
Ciò che rende questo film un gioiello nel vasto panorama degli chef movie è l’abbinamento dello stile registico con il soggetto presentato, ovvero un ristorante con una tagliente e silenziosa tensione che pervade i suoi ambienti. Noi, spettatori seduti comodamente nelle nostre poltrone, seguiamo, sorvegliamo, ci intrufoliamo, addirittura spiamo e stiamo insieme a cuochi, camerieri, lavapiatti e clienti. E’ un modo di fare cinema, senza farlo sembrare cinema, è più uno spaccato di realtà.
La macchina da presa per la maggior parte del tempo pedina lo chef Andy Jones: Graham nella sua interpretazione non ci stanca mai e noi, di rimando, finiamo per fare il tifo per lui, nonostante la sua spiccata e totale antieroicità. Ci immedesimiamo non solo in Andy, ma in tutti i personaggi, che sono incredibilmente reali, forti e vulnerabili nello stesso tempo.
Strisciamo fluidamente tra i tavoli e ci appostiamo negli angoli ascoltando conversazioni segrete, fino a che non raggiungiamo il bagno, unico luogo sacro e invalicabile nel quale non abbiamo il privilegio di andare, ma possiamo solo rimanere fuori ad ascoltare: lì, lasciandoci perplessi e un po’ offesi, la porta si chiude e il personaggio può finalmente avere la sua privacy.
I clienti come villains
Nessun personaggio di Boiling Point è esplorato in profondità, ma ognuno ha un’identità che percepiamo attraverso qualche frase rivolta a qualcuno o lasciata fluttuare nell’aria. Non ci sono grandi dialoghi e le cose non hanno bisogno di essere spiegate. La maestria della sceneggiatura di Boiling Point è quella di imprimerci nella mente i personaggi, ognuno con caratteristiche identificabili, osservando le loro interazioni, fatte di parole semplici e dirette, e il loro modo di fare, che spazia dal nevrotico all’indolente. Non sono mostrate emozioni o reazioni esasperate, eppure sappiamo cosa sta provando ognuno di loro in quel momento.
A far la parte degli antagonisti, o meglio, del fastidioso contorno insipido di una portata principale sudata e saporita, sono i clienti, con le loro assurde richieste e la presunzione di essere più importanti di ciò che sono per chi li serve per lavoro.
Tutti i personaggi principali sono chiaroscurati e incredibilmente reali: Andy non è il classico chef col grembiule inamidato o “alla Gordon Ramsey”, ma un uomo distrutto, con un matrimonio quasi morto, problemi di alcolismo, tossicodipendenza e che non sa mandare avanti il suo ristorante. Alzare la voce è il suo disperato e fiacco modo per farsi valere, ma il suo senso di colpa dopo gli scatti d’ira è genuino. Nemmeno la manager, che dovrebbe avere sotto controllo il ristorante, sa fare il suo lavoro, ma è sballottata da una parte all’altra dagli eventi che finge di governare.
Colui che sembra l’antagonista, un importante chef, è in realtà immerso nel fango come Andy e per colpa di un patto di denaro i due sono bloccati nella stessa situazione: se affonda uno, affonda anche l’altro. L’unica che sembra avere il polso della situazione è la seconda chef, capo autoritario e materno di tutti, la quale infatti matura l’idea di andarsene da quel luogo tossico e insalubre.
Spoiler alert: il doppio finale di Boiling Point
Il finale di Boiling Point è speculare su due livelli: la fine del ristorante e quella conseguente dello chef. Così come il ristorante, dopo un lungo tempo di tensione, a causa di una intossicazione alimentare vede repentinamente rovinata la sua reputazione, così Andy dopo anni di alcol e cocaina muore improvvisamente di attacco cardiaco.
E quando muore, noi siamo lì e non possiamo aiutarlo, possiamo solo guardarlo come abbiamo fatto per la precedente ora e mezza. È quindi tutto nero e noi sentiamo le voci dei colleghi, poi silenzio. Le luci si accendono e torniamo alla realtà. Eppure sembrava davvero di aver passato una serata da incubo nel disastro che non vediamo della ristorazione.
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