“Storie così non si possono più fare”, Carlo Verdone ha ragione. E nel dirlo, c’è tutta la malinconia di Sergio Benvenuti, l’espressione nostalgica, tipica dei suoi personaggi, quelli che trattenevano tra le dita i ricordi aurei, le meraviglie di un tempo conosciuto, vinto e silenziato. Così, con Borotalco, il suo terzo film da regista dopo Un sacco bello (1980) e Bianco, rosso e Verdone (1981), Carlo Verdone affidava ai suoi protagonisti il compito di ritrarre lo spaccato di una società che si riscattava dagli anni di piombo, una generazione di trentenni pronti a vivere il nuovo decennio sotto il vessillo della frivolezza, delle spalline sporgenti, dei disco-club, alla ricerca di un’affermazione individuale che trovava nell’emulazione americana la cifra patinata di una propria identità.
Mentre l’America salutava il tramonto della nuova Hollywood, la televisione diventava l’eletta ammaliatrice di spettatori che nella massa distinguevano la loro Terra Promessa, trainati dalla vocazione per il consumismo e da un edonismo che alimentava il sogno individuale. Quarant’anni fa, in Borotalco (1982), Verdone personificò uno stato d’animo, fece di Sergio Benvenuti l’icona di una ribellione emotiva disillusa, l’erede fittizio di un ideale americano da plagiare per corteggiare chimere inaccessibili.
E se non siamo gli anni Ottanta, oggi gli somigliamo.
Gli anni ottanta secondo Borotalco: “O li sfondo, o m’abbrucio”
Scena 1, interno. Con un montaggio alternato, sulle note di L’ultima luna (Lucio Dalla), la macchina scruta Nadia (Eleonora Giorgi) e Sergio (Carlo Verdone) nella loro routine quotidiana, sale dai piedi alla testa, passando per il borotalco, la crema idratante, le unghie smaltate.
Nella sequenza di apertura si sussurra un epilogo apparente, l’inconciliabilità dei due, la diversità delle prospettive, l’antitesi dei loro gesti: Nadia è fuoco, passione, esuberanza, chioma fluente di capelli dorati, agitati contro le resistenze dello spazio; Sergio è appassito, rassegnato, goffo e alla disperata ricerca di ingranare, insomma “gli sfigura tutto”, come sottolinea la promessa sposa Rossella (la figlia d’arte, Roberta Manfredi). Il regista si fa beffa dello spettatore: nella scena iniziale, così come nella celebrazione dell’explicit, Sergio e Nadia non sono destinati a nascere insieme, né ad unirsi. Ad incontrarsi, infatti, sono Nadia e Manuel Fantoni, l’alter-ego rassicurante, viveur e mondano di Sergio Benvenuti.
Il patto narrativo che Verdone stringe con lo spettatore, dietro la macchina da presa, è quello di una credibile simulazione, una bugia costruita ad arte per imporsi sulla scena come la miglior versione di sé. L’occasione, per il regista, è quella di raccontare una storia che tutti avevano bisogno di ascoltare, una condizione che ogni trentenne, all’alba del domani, necessitava di vedere tradotta sullo schermo. L’inadeguatezza di Sergio, nel contesto edonistico degli anni ottanta, è una redenzione rassicurante anche per noi, che a distanza di quarant’anni osserviamo i temibili trenta, appena dietro l’angolo, con il desiderio di una svolta.
“O li sfondo, o m’abbrucio” dice Marcello, l’aspirante attore interpretato da Christian De Sica. Non c’è più tempo per sbagliare, per i guizzi di testa, per la vita davanti. Fortunato l’uomo, però, a cui è concessa la fantasia: quando le cose, invece di andar bene, semplicemente vanno, allora l’illusione è un vezzo accordato, la morale sospende il giudizio e, alla luce dell’ultima Luna, essere altro è un’opportunità.
#Borotalco: se Instagram fosse nato nell’82
Borotalco è un film musicale. Non perché viaggi, trainato dalle note di Lucio Dalla, sulle corde vibranti dei sentimenti appassiti, piuttosto perché la sua condizione d’esistenza è proprio quella di suonar bene. La sceneggiatura di Borotalco è un esempio di spartito musicale, ogni battuta si lega all’altra secondo precise celle melodiche, una sinfonia di pensieri condivisi e citazioni rimaste impresse nella memoria. Le olive so’ greche, il prosciutto è n’zucchero e so tutte fregnacce: perché se Manuel Fantoni è il pizzico sulle corde di un violino che ambisce al tetto del mondo, Cesare Cuticchia (Angelo Infanti) è la realtà trasognata che abitiamo, l’occasione di chiamarci con un nome scelto e non imposto, di vivere episodicamente. “La vita è un palcoscenico, c’è chi fa l’attore e chi la comparsa”, dice il Manuel di Angelo Infanti.
La vita dell’architetto è un abito che fa il monaco, è la stessa che conduciamo oggi, immersi nel compromesso svilente della visibilità, della competizione sociale, delle aspettative generazionali. Abitiamo vite parallele e differenti, e raramente mostriamo all’altro chi siamo veramente, pieni di difetti, paturnie, estremamente umani ed imperfetti. Borotalco, classe ’82, era la leggerezza che oggi alimenta i nostri profili social, virtuosi nelle bacheche che ceselliamo al millimetro per difendere i nostri perimetri fallibili. Se Cesare Cuticchia e Sergio Benvenuti cambiavano il nome, noi modifichiamo il nostro user name, cediamo alla fantasia perché ci annoiamo, e allora inventiamo, sogniamo, bivacchiamo. Come Sergio, moderno Ulisse, dal νόστος volgiamo ad Itaca, tra le braccia di chi amiamo, trasparenti in controluce.
“Cara” malinconia: quando Lucio Dalla raccontava la Luna
Borotalco sono gli occhi dell’infanzia, la leggerezza che preserva dal peccato, le nuvole soffici su cui fermarsi a riposare quando la vita trascorre e avalla la miseria. “Non c’è più la musica, la malinconia di Lucio Dalla” dice Carlo Verdone. Dalla era L’ultima Luna, un insieme di allegorie, giocate in antitesi, di amore e dolore, speranza e disperazione, dolcezza e orrore.
Un climax decrescente che nelle avversità dell’esistenza ci esorta a fare come la Luna, a cambiare volto, voce, lato esposto. Una visione, quella di un bambino che custodisce la Luna tra le mani: è l’unico a vederla, ed è l’uomo di domani.
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