Caro Diario è uscito nelle sale il 12 novembre 1993: 30 anni fa Nanni Moretti, “splendido quarantenne”, girava per i quartieri di Roma con la sua Vespa (oggi conservata al Museo Nazionale del Cinema di Torino) e vagava per le isole Eolie. Quello che è considerato il punto di svolta di Moretti rimane un’opera con qualcosa da dire che risuona anche nelle nuove generazioni. Cosa ci dice ancora Caro Diario, tre decadi dopo?
Caro diario, un abbozzo di trama e di luoghi
In Caro Diario Nanni Moretti abbandona la maschera di Michele Apicella che lo aveva accompagnato dagli inizi di Io sono un autarchico, ma rimane sempre al centro della narrazione. Solo che in questo caso le ossessioni, le idiosincrasie e le fragilità non vengono filtrate dal personaggio di Apicella: la prima persona si svela in tutta la sua semplicità, con una limpidezza che rende Caro Diario uno dei film più autentici e sentiti del regista romano.
Strutturato in tre capitoli (In vespa, Isole, Medici), Caro Diario si racconta attraverso il movimento: che sia per le strade di Roma a bordo di una Vespa, o traghettando da un’isola all’altra alla ricerca di una pace primigenia da sempre immaginata ma che forse non è mai davvero esistita, Caro Diario prende la caoticità e la frenesia dei tempi moderni e la dilata. Il frastuono delle strade della Capitale si diluisce nel movimento pacato delle onde che si infrangono sui litorali delle isole Eolie, il ronzio della Vespa si estingue nell’avanzare placido del traghetto su cui Moretti continua a scrivere il suo diario.
Caro Diario si racconta anche attraverso i luoghi che attraversa: dalle strade e i quartieri di Roma, tra cui la Garbatella, il Villaggio Olimpico, il Tufello, Vigne Nuove e Monteverde, fino ai luoghi marittimi che popolano il secondo capitolo, le isole di Lipari, Salina, Panarea, Stromboli e Alicudi, il paesaggio esteriore diventa luogo interiore, fatto di ricordi, reminescenze e intenzioni future.
L’ultimo capitolo, Medici, è quello il cui l’autobiografia aderisce quasi del tutto alla finzione filmica. “Nulla di questo capitolo è inventato: prescrizioni di farmaci, incontri con i medici, conversazioni con loro” è l’avvertenza con la quale il regista apre l’ultimo capitolo: un pellegrinaggio tra svariati medici che non riescono a capire i suoi sintomi, alla fine ricondotti a un tumore del sistema linfatico.
La testimonianza della sua malattia, che non tralascia la solita punta di ironia nel rappresentare il tortuoso e surreale iter diagnostico fatto di cumuli di ricette e di farmaci inutili, è il finale di un film che trova nella sua semplicità la sua cifra caratteristica dominante.
Caro diario, sono felice solo in mare
Caro diario si configura come un viaggio, fisico e spirituale, tra le crepe dell’Italia degli anni Novanta e le incertezze personali di un regista che si ritrova a fare un bilancio, a tirare le fila del racconto. E questo resoconto è possibile solo attraverso la pratica del sopralluogo.
Bisogna calarsi nei luoghi, rigirarli e osservarli per cercare tracce di quello che sono stati, paragonando l’immagine visiva con quella trattenuta dalla mente, con l’immagine del passato che ha fatto da mappa e ci ha guidati fin lì.
C’è una malinconia di fondo che vela Caro diario, simile alla nebbiolina marina che avvolge le isole Eolie: una malinconia che trapassa anche l’ironia ostentata e si scatena a ogni partenza, a ogni strada o isola lasciata alle spalle, frutto della commistione affabulatoria tra quel che si cerca e quel che non si ritrova più.
Questo stato di movimento perpetuo, di ricerca continua senza soluzione è qualcosa che continua a risuonare anche nelle nuove generazioni che si trovano a guardare Caro diario.
Fine e inizio di un viaggio: cosa ci lascia Caro Diario
Credo che in italiano il termine “caro” racchiuda lo stesso doppio senso del francese e dovresti ringraziare Nanni per averti ‘battezzato’ così: raramente i film hanno un titolo tanto azzeccato, capace di esprimere quanto tu sia prezioso per lui e, al tempo stesso, quanto gli sia costato girarti.
Olivier Séguret, Cher “Cher Journal”
Questo incipit della recensione del critico francese Olivier Séguret per Libération, in cui si rivolge direttamente al film, rende al meglio la peculiarità di Caro diario all’interno della filmografia morettiana e del cinema italiano. Un racconto faticoso nel suo richiedere di liberarsi di ogni fardello per mostrarsi con onestà, e per questo altrettanto prezioso: ma Caro diario non è solo un’autobiografia intesa come asettico elenco di fatti, luoghi e persone realmente esistenti, ma è una dichiarazione di poetica, un’epica antica e moderna.
Caro diario, come anche Séguret stesso sottolinea, stabilisce che “tutto è cinema”. È la testimonianza di una scelta poetica, estetica e di vita: il cinema come forma di racconto, di espressione, di comunicazione. Il cinema come forma e come sostanza, che racconta e si racconta, che si prende il suo tempo e il suo spazio all’interno di una società in cui non sembra esserci nè l’uno né l’altra. E poi c’è la vita, materia prima del racconto, che diventa indistinguibile da quel cinema così poetico e autentico. Una scelta a cui Moretti ha aderito con severa coerenza e che ci parla ancora, chiedendoci di scegliere a nostra volta, di prenderci quel tempo e quello spazio.
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