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Daliland, nella galassia artistica di Dalì

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6 minuti di lettura

Presentato in anteprima al Festival del Cinema di Torino, Daliland è l’ultimo film di Mary Hamm con protagonista Ben Kingsley. In uscita nelle sale italiane dal 25 maggio, Daliland è un’inedita panoramica sugli ultimi anni di Salvador Dalì, l’iconico artista spagnolo braccato da una vita privata che, pur se bizzarra e dissoluta, l’ha reso portavoce di un’arte pura, libera, senza compromessi.

Daliland, la trama

daliland ben kinglsey

New York, anni ’70. Salvador Dalì (Ben Kingsley) e sua moglie Gala (Barbara Sukowa) soggiornano al Ritz Hotel. A breve sarà inaugurata una nuova mostra del Gran Maestro, ma quest’ultimo fatica non poco a creare opere degne di nota. Allarmato, Christoffe (Alexander Beyer), curatore della mostra, incarica il giovane James (Christopher Briney) di seguire personalmente Dalì per assicurarsi che l’artista realizzi le tanto agognate tele. Ciò porterà James a conoscere da vicino non soltanto il lato umano di Dalì, non esente da fragilità e angosce esistenziali, ma tutta una certa galassia artistica che gli ruota attorno, quella di Daliland: surreale e grottescamente affascinante da cui resterà sin da subito ammaliato, e che gli cambierà per sempre la vita.

Il Dalì cineasta che non tutti conoscono

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Artista a tutto tondo, Dalì ha avuto un rapporto di certo non trascurabile con la settima arte. Anzi, se si pensa a uno dei film più iconici della storia del cinema, ovvero Un Chien Andalou di Luis Bunuel, non si deve omettere il decisivo contributo apportato dall’artista spagnolo, il cui surrealismo stava già profondamente scardinando il modo di concepire l’arte.

Del resto, Dalì è stato uno dei primi a considerare il cinema un mezzo perfetto per far dialogare artisticamente due diverse dimensioni: il reale, soltanto all’apparenza semplice perché decifrabile, e il sogno, surreale e necessariamente onirico. Il risultato, il più delle volte, è qualcosa che destabilizza lo spettatore, portandolo a interrogarsi su questioni esistenziali del tutto inedite.

Pulsioni erotiche, anticlericalesimo e suggestioni psicoanalitiche hanno pertanto alimentato un genio in grado di esprimersi anche attraverso il mezzo cinematografico. Non soltanto Un Chien Andalou; Dalì ci ha messo lo zampino in altre opere come L’Age d’or, sempre diretto da Bunuel, Io ti Salverò, chiacchieratissimo film di Alfred Hitchcock, nonché uno dei primi a trattare temi di natura psicanalitica, e Destino, sfortunato cortometraggio animato prodotto da Walt Disney.

Progetti, questi, che non sempre hanno avuto fortuna, ma che hanno avuto il gran merito di rendere ancor più immersiva una poetica abbastanza ostica. È da queste premesse che vuole fondarsi Daliland: quanto dell’uomo Dalì influenza una visione dell’arte così rivoluzionaria?

Daliland, un ritratto decadente e troppo modesto

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Si badi bene, Daliland non aveva fatto bisogno di un tocco autoriale. Eppure la sceneggiatura piatta di John Walsh e la regia senza guizzi di Mary Harron rendono il film eccessivamente banale, quasi un trattato sin troppo semplicistico di un uomo problematico, e non di un genio. Perché, soprattutto con il fondamentale artista spagnolo, è la complessità oscura ma elettrizzante dell’uomo a dipingere una concezione del mondo spiazzante, fluida, del tutto aderente al mondo contemporaneo.

Nemmeno Ben Kingsley, tutto sommato ben calato nei panni dell’artista di Figueres, riesce a metterci sempre una pezza. Daliland è un prodotto fuori luogo e mal pensato: un brutto dipinto barocco del ‘600 esposto in un museo d’arte moderna.

I demeriti purtroppo non finiscono qui; se la fotografia calda di Marcel Zyskind e i costumi curati da Hannah Edwards sono i traghettatori di un comparto tecnico che fa egregiamente il suo lavoro, appare molto meno indovinata la scelta di affidare a Christopher Briney, il ruolo di James. Monoespressivo e poco a suo agio nei panni di un giovane talento inespresso, Briney non riesce quasi mai a entrare in sintonia con gli altri personaggi, soprattutto con Dalì, con il quale in teoria ci si aspetterebbe un’alchimia non indifferente.

Ultimo, ma non meno importante: l’utilizzo dei flashback; superflui e oltremodo didascalici, essi sono i tasselli in più di un biopic poco incisivo, che non coglie affatto la caratura umana e artistica di una delle personalità più influenti del ventesimo secolo.


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Napoletano, classe 1996, laureato in Filologia moderna e con un master in Drammaturgia e Cinematografia. Perennemente alla ricerca di sonno, cibo e stabilità psicofisica, vivrebbe felice anche nel più scoraggiante dei film di Von Trier, ma si accontenta della vita reale insegnando nelle scuole ad amare le belle storie. Nulla gli illumina gli occhi più del buio di una sala.

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