Presentato alla 75° edizione del Festival del Cinema di Locarno e vincitore del prestigioso premio della giuria al Film d’Animation d’Annecy 2022, Manodopera è pronto a uscire nelle sale italiane a partire dal 31 agosto. Diretto da Alain Ughetto, vero e proprio guru del cinema d’animazione europeo, Manodopera è un’originale dramedy in stop-motion che ha richiesto ben nove anni di lavorazione, con solo una piccola pausa di qualche mese durante il periodo pandemico.
Manodopera, trama
Italia, primissimi anni del ‘900. Nel paesino piemontese di Ughettera, posto sulle innevate pendici del Monte Monviso, vive Luigi. Poverissimo, generoso e gran lavoratore, Luigi cerca di vivere alla giornata con i fratelli Antonio e Giuseppe. Un giorno, conosce e s’innamora di Cesira, una giovane donna con cui in breve tempo si sposerà e avrà dei figli. Ma dietro l’apparente idillio d’un amore d’altri tempi, edificato su piccoli ma amorevoli gesti e su enormi sacrifici, irrompe la storia con la S maiuscola.
La fatica di dover sostentare una famiglia in assoluta povertà e l’avvento delle due terribili guerre mondiali sconvolgono non poco l’Italia e la Francia, ormai nuova terra d’adozione della coppia. E così, come in una rivisitazione in salsa agrodolce e transalpina dei Malavoglia di Verga, Gli Ughettera – poi Ughetto – tentano con ogni mezzo di sopravvivere, non dandosi per vinti e cercando di far crescere nel miglior modo possibile tutta la loro discendenza.
Manodopera, vietato l’accesso ai cani e agli italiani
Per comprendere appieno un film come Manodopera non si può prescindere dal titolo originale francese, più lungo e decisamente più incisivo: Interdit aux chiens et aux Italiens. Tale titolo, come rimarca più volte Ughetto, qui nelle vesti non solo di regista ma anche di sceneggiatore insieme a Alexis Galmot e Anne Paschetta, è perfetto per riprendere il clima d’odio e d’intolleranza che una buona fetta di popolo francese nutriva per gli italiani. Eppure, come il personaggio di Luigi esemplifica compiutamente, a inizio ‘900 erano proprio gli italiani – i più poveri, disperati e bisognosi di lavoro – le formichine operose che senza posa costruivano tutte quelle strutture che oggi, a quasi un secolo di distanza, risultano ancora fondamentali.
Trafori, gallerie, dighe; questo e molto altro sono stati il lascito di tanti italiani costretti a lavorare spesso in condizioni disumane pur di garantirsi un pezzo di pane. Passività e alienazione, d’altronde, sono i segni più caratteristici di queste vittime della storia, questi burattini che Ughetto furbescamente realizza e fa muovere come dei pupazzetti senza un’apparente volontà precisa. E da qui il vero e proprio miracolo di Manodopera: realizzare, grazie a un sapiente uso della stop-motion – non quindi non la tecnica d’animazione più facilmente digeribile per lo spettatore medio, un’epopea familiare tanto potente quanto accorata; un tributo ad un certo tipo di resilienza – non soltanto italiana – che il regista affida proprio a sua nonna: Cesira.
A quale patria apparteniamo?
La forza d’animo di Cesira, che ben traspare nel suo racconto a tratti commovente, restituisce ottimamente la dimensione di un personaggio solido, senza sovrastrutture. Mentre tutti gli altri personaggi appaiono segnati, come già accennato prima, da una certa passività e alienazione, la nonna animata del regista è permeata da un’umanità orgogliosamente attiva, capace di riflettere persino su un senso di appartenenza che potrebbe apparire labile, contradditorio, addirittura illusorio.
Perché la patria di Cesira e Luigi è indubbiamente quella italiana; eppure, la zoppicante giustizia sociale e le drammatiche svolte politiche del Belpaese (Guerra in Libia e fascismo al potere, per intenderci) hanno scaraventato lontano alcuni suoi figli, in quella Francia che poi darà i natali a tutta la discendenza degli Ughetto, regista compreso. Si tratta dunque di tradimento? Di un voltafaccia prima obbligato e poi “benedetto” nel corso degli anni da parte di una coppia semplicissima, le cui uniche aspirazioni si riducevano a una casa dalle fondamenta solide e alla goduria di un piatto caldo di polenta da assaporare a fine giornata?
Naturalmente, il discorso che la scrittura di Manodopera fa è molto più stratificato e complesso e presuppone un ripensamento per nulla banale sul concetto di appartenenza. Che sia l’Italia o la Francia non importa; dopo una vita di sacrifici il più del volte non ricompensati, sarà proprio Cesira in uno dei passaggi più belli di tutto il film ad affermare “che noi non apparteniamo a un Paese, ma alla nostra infanzia“.
Sono i ricordi, anche i più dolorosi, a definire questi pupazzetti dagli occhi fissi e dalle movenze curiosamente disarticolate. Le intere giornate spese a spalare la neve, a picchettare sulle rocce e a cantare gioiosamente attorno a un fuoco definiscono questa generazione di persone che il regista, nostalgicamente, tenta letteralmente di afferrare, optando più di una volta per una scelta registica – far dialogare il suo corpo gigantesco con i piccoli pupazzetti che contemporaneamente crea – molto originale e profonda: creare un ponte tra un presente così grossolano e un passato sempre più minuscolo e dimenticato, sulle note delle belle musiche composte appositamente da Nicola Piovani.
Il risultato è una riscoperta agrodolce delle proprie radici, un incontro animato e squisitamente genuino con un passato che può sempre essere ricordato e reinventato in mille modi diversi. Manodopera, grazie al tocco sopraffino e paziente di Ughetto, dimostra che anche una piacevolissima perla in stop-motion può sublimare la storia di un’intera famiglia, rendendola senza ombra di dubbio un’inaspettata opera d’arte.
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Complimenti un bellissimo capolavoro che dire e un film da vedere grazie