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Kafka a Teheran copertina

Kafka a Teheran, una satira tagliente e coraggiosa

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5 minuti di lettura

Presentato all’ultima edizione del Festival del Cinema di Cannes nella sezione Un Certain Regard, Kafka a Teheran è un film a episodi diretto dalla coppia di registi iraniani Ali Asgari e Alireza Khatami. Distribuito da Academy Two, Kafka a Teheran sarà presente nelle sale italiane a partire dal 5 ottobre.

Terrestrial Verses – questo è il titolo anglofono dell’originale Āyehā-ye zamini, ripreso da una raccolta di poesie della poetessa iraniana Forough Farrokhzad – contiene ben nove episodi di vita quotidiana in cui al desiderio di giustizia dei protagonisti si contrappone il durissimo sistema sanzionatorio iraniano. Ci troviamo, appunto, in Iran, un paese dove l’orrore del regime non è quasi mai raccontato con lucido e feroce distacco, magari seguendo il solco di una satira indispensabile per denunciare le storture di una realtà così dura. Per fortuna, il lavoro congiunto e audace di Asgari e Khatami non tradisce le aspettative e segue la migliore delle direzioni. Perché Kafka a Teheran è esattamente ciò che deve essere: una denuncia sociale aperta e sagace, non priva di inaspettati simbolismi.

Kafka a Teheran, appunti su un regime alienante

Sarvin Zabetian in Kafka a Teheran

Le vicende raccontate dai due registi, qui anche nelle vesti di sceneggiatori, sono decisamente variegate: si va dall’onesta lavoratrice che viene sospettata in modo molto sommario di non aver indossato l’hijab mentre guidava l’auto, al regista che cerca vanamente di farsi approvare dalla censura di regime il proprio copione; dall’ansioso operaio che deve conoscere a memoria tutto il Corano per avere un impiego, a una dolce signora chi si fa in quattro per ritrovare il proprio cane, considerato dalla società un essere impuro. Esempi di crudele normalità a cui i protagonisti dei vari episodi rispondono sempre compostamente, senza ricorrere a inutili pietismi.

È d’altronde la parola l’unica arma in grado di affrontare le ingiustizie subite; c’è chi si adegua e risponde colpo sul colpo al suo carnefice, come ad esempio accade nel primo episodio, quando una tenace ragazzina tiene testa alla preside della sua scuola, e c’è chi invece soccombe, come il già citato operaio, ben consapevole di non poter ottenere l’impiego a causa di una conditio sine qua non sciocca e del tutto fuori luogo. In tal senso tutti gli episodi, oltre ad essere ben scritti, si rivelano assolutamente efficaci nel tratteggiare un quadro socio-politico assai preoccupante, dove a farne le spese sono soprattutto le donne e le categorie più svantaggiate.

Kafka a Teheran, se questo è un paese

Sadaf Asgari in Kafka a Teheran

La potenza della parola diventa a tutti gli effetti onnipresente grazie allo stile minimal scelto dai due registi iraniani: la colonna sonora è quasi del tutto assente, a nove episodi – escludendo l’epilogo catastrofico – corrispondono nove long take a telecamera fissa, dove ad essere inquadrati sono soltanto gli accusati, mentre gli inquisitori restano sinistramente sullo sfondo. Lo spettatore, dunque, si ritrova catapultato su scene spiazzanti e a tratti orrorifiche, i cui dialoghi presentano per giunta chiare venature grottesche. Scene di vita quasi kafkiane, dove la risata, se c’è, è amarissima e si eclissa immediatamente nell’assurdità della vicenda narrata. Da qui si spiega il titolo italiano Kafka a Teheran: meno impattante dell’originale, ma tutto sommato valido.

Al terribile realismo dei nove episodi fa infine da contrappunto un epilogo ricco di simbolismi, che sembra richiamare certi film massimalisti di un certo cinema occidentale. Il terremoto che scuote le fondamenta di un intero paese, la natura che si riprende i suoi spazi a discapito dell’uomo piccolo e impotente. Necessità e oblio, materialismo e distruzione raccontati in chiave magistrale prima da Robert Altman in Short Cuts America oggi in Italia -, e poi dal suo allievo Paul Thomas Anderson in Magnolia. L’umanità annientata per la sua disumanità, e di conseguenza lo scotto pagato paradossalmente da chi cerca di raccontare questa concreta possibilità, come testimonia il fatto che a uno dei due registi di Kafka a Teheran, Ali Asgari, è stato confiscato il passaporto e proibito di realizzare un nuovo film.


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Napoletano, classe 1996, laureato in Filologia moderna e con un master in Drammaturgia e Cinematografia. Perennemente alla ricerca di sonno, cibo e stabilità psicofisica, vivrebbe felice anche nel più scoraggiante dei film di Von Trier, ma si accontenta della vita reale insegnando nelle scuole ad amare le belle storie. Nulla gli illumina gli occhi più del buio di una sala.

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