Inizia con un dettaglio su due occhi di bambina, il Django di Francesca Comencini, sullo sguardo disperato di un massacro che imperversa nel fuori campo. Comincia con una bara trascinata nel fango, allargando progressivamente il piano sulla donna che la traina e svelando quasi subito quanto contenuto al suo interno: delle armi.
L’incursione nella serie è un’evocazione fulminea di immagini che del genere e del cinema hanno fatto la storia e una dichiarazione d’intenti di esplicita leggibilità: del Django di Sergio Corbucci non sentiremo che gli echi, in questo western rovesciato e orientato al femminile.
Debutta su Sky (e NOW), Django, serie tv co-prodotta da Canal +, Cattleya e Atlantique Productions. I primi due episodi sembrano suggerire le intenzioni del progetto, introducendoci in uno spazio narrativo definito, già intinto di quella spettacolarizzazione visiva mista a introspezione dialogica che della serialità contemporanea sta dettando le fortune.
E Django?
Django è ancora un uomo smarrito
Il Django di Matthias Schoenaerts rievoca l’iconicità di quello di Franco Nero, nell’aspetto, nei toni e nelle premesse: un uomo alla deriva, perso ed errabondo alla ricerca della figlia perduta.
Per caso e per fortuna approderà a New Babylon e lì, subito, re-incontrerà Sarah.
A differenza dei principali testi di riferimento, di Corbucci e di Tarantino (Django Unchained), la donna-movente all’azione è un personaggio svelato, immediatamente. Scopriamo che gli occhi della bambina che hanno aperto l’episodio erano quelli di Sarah (Lisa Vicari) e che ad essere stata uccisa, mentre il padre era assente, era la sua famiglia. Django la credeva morta, lei ancora lo incolpa: le tracce del passato, rivelate attraverso una composizione di flashback, sono pezzi di una storia da riassettare e indici di un rapporto irrimediabilmente incrinato, da ritrovare.
Sarah è la madre di New Babylon, città arroccata sul cratere di un vulcano, territorio multiculturale e centro d’accoglienza simil-anarchico di chiunque non abbia un posto dove stare, ma soprattutto terra libera per gli ex schiavi afro-americani. Siamo nel 1872, sette anni dopo la fine della guerra civile, ma il sud del Texas è ancora distante dall’estromissione del razzismo.
John Ellis (Nicholas Pinnock), ex schiavo, governa e guida il popolo insieme a Sarah, in nome di un’inclusione che sembra innestarsi senza risparmiare inciampi.
Edificata scenograficamente come una sorta di anfiteatro, New Babylon confina con la città di Elmdale: calco architettonico di quei villaggi che siamo abituati ad ascrivere alla tradizione western. È abitata da cittadini retti e cattolici e dominata dalla Signora Elizabeth (Noomi Rapace), autoproclamatasi custode della parola del suo Dio e protettrice di quel patriarcato che la Comencini sembra aver intenzione di debellare, pezzo per pezzo.
A New Babylon le armi vengono lasciate alle porte, dentro quella bara che apre la serie; a Elmdale lo scontro a fuoco è sempre sul punto di esplodere. Nella prima la regola per vivere è la generosità; nella seconda il dogma è l’asservimento, favorito in primo luogo da un persistente e trasversale schiavismo.
Le donne di Django: eroine e antieroine
Nel Django della Comencini, due donne sono a capo di due società aspramente in lotta fra loro.
Entrambe sublimazioni di un passato che ancora scotta le loro pelli e archetipi sfaccettati di visioni sull’avvenire: progressismo e conservatorismo si scontrano dal principio.
La Signora diffonde e difende il suo credo, scegliendo deliberatamente i mezzi e i modi con cui castigare i peccatori. Vestita di nero, si aggira tra i bassifondi lussuriosi della società sentenziando con violenza le sue pene. Sull’asse opposto, l’immagine di Sarah è accompagnata da un perpetuo chiarore, bianca negli abiti e quasi sempre mostrata su piani sopra-elevati, ascesa figurativamente fin dalle prime mosse che compie sullo schermo: indipendente, forte, in controllo della sua femminilità.
Due episodi sono sufficienti per desumere, sia in Sarah che in Elizabeth, una spiccata tridimensionalità, rinvenibile nella contrapposizione di valori e nella comunanza di spinte –emotive– che le muovono.
Sarà interessante osservare quale direzione prenderà questo duello tra eroina e antieroina, già completamente attualizzato dalla sua variazione al femminile.
Django, le zone d’ombra dei suoi uomini
Quanto agli uomini, i primi due episodi di Django non rivelano molto: il loro spazio è relegato a qualche inferenza e a molte zone d’ombra.
Django è l’involuzione dell’uomo e del padre che è stato, l’antieroe sconfitto nella sfera degli affetti e modicamente incline a ritornare a vivere. Ondivago, senza terra né aspirazioni, il mistero che avvolge la sua tragedia familiare iscrive un passaggio interessante per l’esplorazione narrativa, non intimidita nel rappresentare la crisi di un soggetto depotenziato rispetto ai suoi predecessori cinematografici.
John Ellis è un leader con un’utopia, sovrano spirituale e politico della sua gente, padre di tre figli e in procinto di sposare Sarah. Per ora bisogna accontentarsi degli sporadici accenni, inseriti qua e là, che tradiscono una certa ambiguità intorno alla rete di intrecci fra il suo passato e quello di Elizabeth.
L’impressione è che non voglia esserci manicheismo in questo ensemble di personaggi, affrancati dall’assolutezza del bene e del male e riecheggianti di quel colore indefinito con cui maestri come Corbucci e Tarantino avevano già tinteggiato i propri protagonisti.
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Dentro l’immaginario dei Django
Django si serve dei Django per evocare un immaginario. Inserisce una storia ontologicamente diversa -perché seriale- in un contesto ampiamente sfruttato e facilmente identificabile. Si avvale della fascinazione per il genere come spunto per il dipanare di un racconto che dà le redini alle donne, accogliendo le vulnerabilità dei suoi uomini e scoperchiando il western dalla sua caratteristica fondante: la virilità.
Ma il contesto aiuta la riconoscibilità, facilitando lo spettatore nel processo di orientamento: e allora ritroviamo la violenza, la vendetta, il fango, la pioggia, il sangue e i duelli che da sempre hanno abitato il west.
Il gioco cinefilo di ravvisabilità delle citazioni, raffinate o esplicite, si innerva senza stonature nell’incedere narrativo e contribuisce a settare il tono della serie. Dal canto suo, la trama si disloca con perizia tra gli estremi del ritmo, spaziando con convinzione fra esplosioni di violenza e sospensioni introspettive.
Sebbene a tratti ceda ad accenti un po’ elegiaci e ad una grammatica cinematografica didascalica rispetto agli avvenimenti, la posta in gioco di questo progetto internazionale, nella realizzazione e nella resa, sembra essere molto alta.
I primi due episodi funzionano da world building del prodotto, ben finalizzati a un’introduzione già solida dell’ambiente e dei suoi personaggi.
Django si accomoda con agio nel filone italiano della “nuova” serialità di genere, sfoggiando le sue maestranze e scommettendo, con serietà, sulle proprie qualità. Sarà all’altezza delle sue aspettative?
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