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Educazione fisica, cronaca nera di un film sovraccarico

8 minuti di lettura

La palestra, nella delimitazione scolastica, è luogo di sfogo, disciplina, divertimento, competizione, gara individualistica o gioco di squadra. Educazione Fisica è negazione aberrante di un’umanità che, come la sua palestra, cade letteralmente a pezzi.
È al cinema, dal 16 marzo 2023, il nuovo lavoro di Stefano Cipani. Sua è la regia di un’opera che si serve della mano esperta dei fratelli D’Innocenzo per l’adattamento della pièce teatrale di Giorgio Scianna (La palestra).

Profanata, usurata, polverosa e decadente, la scuola è lo spazio soffocante chiamato a ospitare lo scontro violentissimo del film. La claustrofobia fisica è il pretesto di una storia che sceglie di tallonare i suoi protagonisti nell’atto drammatico di smascheramento di sé.
L’interrogativo, posto a monte di qualsiasi possibilità di giudizio, è per te, spettatore: come reagiresti alla tensione asfissiante di una verità ripugnante? E se questa riguardasse tuo figlio?

Educazione fisica, una questione da “adulti”

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Un caso di violenza sessuale denunciato da una studentessa è la miccia per il duello che infiammerà tutta la durata del film. Il resto dello svolgimento è scarno di avvenimenti e pregno di discussioni: i genitori dei ragazzi accusati vengono convocati dalla preside (Giovanna Mezzogiorno) dentro quella palestra tutta arroccata che denuderà la loro morale. Franco (Claudio Santamaria) intima i giovani a restarne fuori, rassicurandoli che della faccenda se ne occuperanno gli adulti.
L’incipit è paradigmatico di ciò che verrà: a partire dalla deresponsabilizzazione, passando per la marginalizzazione della vittima (che non vedremo mai) e culminando nell’infantilizzazione di ciò che è supposto definirsi adulto.

Le due coppie, rappresentanti di un interclassismo avvilente di bestialità sensibile, sembrano ricalcare punto per punto quelle di un altro film che si serve della prevaricazione e dell’oppressione spaziale come veicoli per sviscerare le interiorità dei suoi personaggi: Carnage di Roman Polański. Il riferimento non è fine a sé stesso, ma utile al palesamento della prima debolezza dell’opera di Cipani: l’assenza di gradualità.
Carnage è un esperimento attoriale, di scrittura e di regia che cesella con raffinatezza lo spostamento dei suoi esistenti verso una scarnificazione della loro reale natura morale, riuscendo nell’intento di costruire una curva crescente, ma credibile, di tensione emotiva che buca lo schermo.

Educazione Fisica lavora in senso contrario, sovraccaricandosi da subito di temi e abbracciando una recitazione veemente ed enfatica che finisce per vorticare su di giri, rendendo il film grottesco nel tono di voce e fragile di verosimiglianza.

I cliché di un dibattito tristemente realistico

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Lo stupro della giovane ragazza è la ghiotta occasione per portare a galla un dibattito classico che spazia sui temi della negazione, irresponsabilità, giustificazione, manipolazione e, ovviamente, colpevolizzazione della vittima. Il gruppo di genitori, perfino di fronte all’evidenza di un video, fatica ad accettare la mostruosità insita nei propri figli, spingendosi fino al completo rifiuto della realtà: invece di responsabili si sentono giudicati, umiliati e bisognosi di quella stessa compassione che non sono in grado di offrire. Il gioco della vittimizzazione si ribalta e cala il sipario. Touché.

A metà il film viene scosso in avanti da un colpo di scena che alza l’indice di inattendibilità ma al contempo dà nuova linfa a un ritmo quasi sul punto di sopirsi: lo slittamento sottile tra i generi riaccende la narrazione con una reiterazione di temi che fa ricadere le colpe dei padri sulle spalle dei figli e viceversa, contribuendo al cortocircuito desolante di un’umanità immorale.
In uno dei suoi solipsistici monologhi, Franco parla degli studenti -maschi- delle scuole superiori additandoli di un’ovvietà ontologica: più crescono e più, naturalmente, diventano bestie.
Difficile non sentire l’eco degli sceneggiatori.

Educazione fisica, l’enfasi soffoca la storia

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La scrittura dei fratelli D’Innocenzo si è sempre mossa sui margini della cronaca nera, paralizzandosi nelle periferie ambientali e morali dei suoi personaggi e sventrandone, con cruda e delicata esplorazione, la psiche.
Educazione Fisica è ancora questione di cronaca, di quella tipologia che utilizza il filtro della narrativizzazione per dare colore e rendere il dramma avvincente, coinvolgente, spendibile. C’è un momento, sul finire del film, in cui i personaggi discutono su quale versione dei fatti raccontare alla polizia: nell’escandescenza di un dibattito tragicomico la sceneggiatura si prende il tempo, morigerato, per fare scuola su come trasformare la fattualità in emotività trascinante, sfiammandone la gravità. Se la disgrazia diventa notizia, il pathos proclama salvezza, scommettendo tutto sull’empatia.

Uno storytelling violento, che nelle mani dei due sceneggiatori romani si è sempre rivelato ritratto crudele di quel maschilismo ad alta infettività incuneato in ogni angolo della società.
Educazione Fisica è figlio dello stesso sistema, vittima sconfitta di un patriarcato brutale, sintetizzato dalla figura di Franco ma innervato in tutti i comprimari: Aldo (Sergio Rubini), Carmen (Raffaella Rea) e Rossella (Angela Finocchiaro).
Uomini o donne non fa differenza, in ogni personaggio è tradotto un atteggiamento che fortifica e riecheggia l’insieme di sovrastrutture incrinate e distorte.

A fronte di una tossica virilità, sovraesposta da atteggiamenti misogini, razzisti e denigratori, il destino della rappresentazione femminile passa per un meccanismo punitivo ancora peggiore: le donne di Educazione fisica non lavorano (o se lo fanno ci si sorvola), sono pazze, isteriche, stupide e sessualmente provocatorie.
Si salvano solo se abbassano il capo, perché a lottare contro corrente si finisce, inevitabilmente, sconfitte.

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La metafora funziona, colpisce, raggela. Ciò che stona è l’immediatezza, didascalica nei suoi accenti, di una messa in scena che si gonfia di enfasi e soffoca la storia. Si sarebbe potuto raccontare meglio, consentendo allo spettatore di riconoscere guizzi di umanità pur nel resoconto, ricercato e consapevole, della sua negazione.
Sullo schermo e nel ricordo rimane un affresco indigesto di violenza che germoglia incensata, tramandata da una generazione all’altra e rintoccata con indifferenza dalla risata dei ragazzi che risuona, incurante, nel fuoricampo.
In fondo, sono loro i mostri del futuro.


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Laureata in Cinema e Comunicazione. Perennemente sedotta dalla necessità di espressione, comprensione e divulgazione di ogni forma comunicativa. Della realtà mi piace conoscere la mente, il modo in cui osserva e racconta le sue relazioni umane. Del cinema mi piace l’ascolto della sua sincerità, riflesso enfatico di tutte le menti che lo creano. Di entrambi coltivo l’empatia, la lente con cui vivere e crescere nelle sensibilità ed esperienze degli altri

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