Quello che Ettore Scola ha lasciato non è un vuoto incolmabile, ma l’invito a riscoprire i valori di un cinema autentico, capace di rappresentare l’evoluzione della società italiana, far parlare i sopravvissuti, gli uomini qualunque non devoti al qualunquismo, le generazioni di giovani-anziani che si affacciavano per la prima volta sul precipizio della perdita delle illusioni. Se è vero che un’opera, una volta venuta alla luce, ha vita propria ed è slegata dal destino del suo autore, ai film di Ettore Scola spetta ancora e più che mai il compito di svegliarci dall’intorpidimento nostalgico, dall’ossessiva ripetizione del già detto, dalla furbizia mascherata da tenerezza che ha prodotto negli ultimi anni nomination immeritate e premi vinti senza un briciolo di convinzione.
Riproporre Una giornata particolare, Dramma della gelosia o Brutti, sporchi e cattivi può essere la cura per i mali di oggi, quelli che colpiscono l’anima e il cuore assuefatti alla mediocrità e alla retorica, ubriachi di grandi bellezze e falsi miti.
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Basterebbe rivedere La terrazza per capire il senso di quanto gli intellettuali (e quelli di oggi più che mai) amino parlarsi addosso, masturbarsi su concetti triti e ritriti, utopiche sentenze e anacronistiche questioni («A che ora è la rivoluzione, signora? Come si deve venire? Già mangiati?»). Vien facile rivedere nei protagonisti annoiati quell’élite salottiera che affolla i teatri e calpesta altezzosa i tappeti rossi delle kermesse, sfugge quasi un sorriso a constatare che in fondo non è cambiato niente, ci si trastulla sempre nella propria superiorità auto-indotta senza sapere che forse, in fondo, ci si allontana dalla realtà. E allora è vero che un film di Ettore Scola può far riflettere senza bisogno di parole, spalancare gli occhi su un mondo nei confronti del quale si era perso il contatto, spingere a volere di più, e ancora, per il nostro cinema.
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C’eravamo tanto amati è l’esempio lampante di quanto un’opera di questo tipo superi i confini del tempo e parli al cuore delle persone. Trent’anni di storia italiana scorrono sullo schermo attraverso le vite di tre amici ex partigiani che si ritrovano a Roma alla fine della guerra. Antonio (Nino Manfredi) fa il portantino al San Camillo, Gianni (Vittorio Gassman) è avvocato e Nicola (Stefano Satta Flores), insegnante reazionario, tenta di affermarsi come critico cinematografico. Uniti dal ricordo nostalgico di un passato di ideali perduti («volevamo cambiare il mondo, invece il mondo ha cambiato noi»), i tre sono ormai profondamente diversi, assorbiti loro malgrado dai cambiamenti storici, sociali e culturali che, sullo sfondo di una città stuprata dai palazzinari, agiscono in maniera quasi osmotica.
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È nell’impossibilità di rivivere la purezza di quello che li aveva animati in gioventù che i tre finiscono per innamorarsi della stessa donna, Luciana (Stefania Sandrelli), attricetta di Udine arrivata nella Capitale piena di sogni e belle speranze. Fidanzata con Antonio, poi amante di Gianni («Vincerà l’amicizia o l’amore? Sceglieremo di essere onesti o felici?») e breve fiamma dell’utopista Nicola, la giovane è il manifesto segnale dell’ingranaggio che spezza un movimento armonico, il punteruolo che si infila in una falla mostrando solo in quel momento quanto questa sia ormai larga. I tre ex ragazzi non sono più quelli di un tempo, perché l’aria è cambiata e la realtà ha fatto i conti con la storia.
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Si danno il cambio le voci narranti, passando dal comunista Antonio al socialista voltagabbana Gianni fino ad arrivare ai non così dissimili Nicola e Luciana, entrambi vittima dei loro sogni perduti. È sui loro binari che si dipana la storia, quella dell’Italia e dei suoi vizi, quella dei compromessi e del clientelismo, in cui si rinuncia a una vita vera per l’abbaglio effimero della stabilità economica. E così Gianni tradisce gli amici e Luciana per sposare l’ingenua Elide (Giovanna Ralli), figlia del traffichino rozzo e ignorante Romolo Catenacci (Aldo Fabrizi) che intrallazzando a danno dei cittadini può garantire al genero una vita di lusso e villa con piscina. Nicola viene espulso dalla scuola per le sue simpatie estremiste e perde tutto a Lascia o raddoppia (simbolo infausto del futuro mito berlusconiano del successo facile), finendo per vivere e scrivere sotto pseudonimo commedie cinematografiche. Antonio resta invece il più idealista, capace di perdonare tutto in nome dei sentimenti che, ancora, muovono il suo mondo.
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Senza mai cedere alla tentazione della retorica che tanto piace al cinema odierno, Scola racconta sentimenti e lotta politica, vita quotidiana e rimpianti, sotterfugi, arrivismo e idealismo. Le vite dei protagonisti sono rette che corrono separate finendo per trasformarsi, con un’espressione rubata alla politica più becera, in convergenze parallele. Nel mezzo c’è il disincanto, la perdita di senso, l’inquietante presagio di una società che ora c’è, è tra noi e ci ruba le speranze. Ettore Scola lo ha visto, ci ha riflettuto e infine ha realizzato un film che resterà per sempre nel panorama della cinematografia italiana. Recuperiamolo, davvero, perché oggi più che mai ce n’è bisogno.
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