Il rosso fuoco della Saab 900 Turbo del precedente Drive My Car è memoria liquefatta nel blu accecante del nuovo lavoro di Ryusuke Hamaguchi, tinteggiato con intensità dentro ogni estatica e candida inquadratura. Evil Does Not Exist apre e chiude il suo squarcio sull’idillio bucolico di un piccolo paradiso boschivo con due carrellate che scorrono in senso contrario, accompagnate da un’inversione atmosferica che inizia nel calore del sole e si chiude in un tragico crepuscolo.
Storia di forze di potere, natura e contaminazione all’interno di un’ecologia sacrificata a favore di un benessere violento, veniale e manipolatore. Con Evil Does Not Exist, Hamaguchi confeziona un’opera robusta, immersiva e straordinariamente calma, anche quando marchia a sangue il suo spettatore, sferzando d’aria ghiacciata un equilibrio teso su miti e avvolgenti temperature.
La melodia quieta di Hamaguchi in Evil Does Not Exist
Evil does not exist è una delicata melodia che risuona quieta, seguendo l’incedere lento di una natura dipinta in campi lunghissimi, statici e silenziosi. Hamaguchi si prende il tempo, lo dilata e lo riempie di un cinema piegato all’autenticità. Indugia sulla ritualità, la quotidianità e i gesti meccanici di un piccolo paesino del Giappone e della sua comunità.
Takumi (Hitoshi Omika) è il tuttofare di questa immacolata oasi di pace, la macchina da presa lo osserva a distanza, seguendolo adagio nei lavori che svolge e poi insieme alla figlia, Hona, che ogni giorno va a prendere a scuola e ogni giorno da quella scuola la scopre già scappata via. La riallaccia nei boschi, libera e curiosa e, con la generosità di chi ama e rispetta l’ambiente cui appartiene, le insegna a leggerne segni e cicatrici, condividendo con lei l’affetto gentile per una natura amica. Almeno fin quando la si lascia scorrere in equilibrio.
Harasawa è un piccolo villaggio, ma gli uomini e le donne che lo abitano sono spessi negli animi e coesi nella collettività. Così, quando un’agenzia di spettacolo minaccia la misura su cui l’armonia è costruita, con quella coesione gli abitanti si fanno scudo.
Il progetto è la costruzione di un glamping, edificato su fondamenta traballanti che si scoperchiano facili nel corso di un incontro con la popolazione del paese. Le criticità non si contano, tra l’impatto negativo sull’approvvigionamento idrico, la collocazione delle fosse settiche e i relativi e compromettenti rischi banalizzati e sottovalutati dal sommario piano edilizio. Le conseguenze sulla vita e sugli istinti (primordiali e familiari) di Takumi saranno irrimediabili, segnando una cesura affannosa su una serenità costruita nel tempo e pugnalata in un solo momento.
Evil does not exist, il sussurro feroce di Hamaguchi
Hamaguchi incardina Evil does not exist su due piani asimmetrici, incorniciando l’uno nell’ampiezza di campi maestosi e ingabbiando l’altro dentro cunicoli stretti e inquadrature compresse. Ai primi appartiene la comunità del villaggio, fotografata immobile in una cadenza regolare di pacifica contemplazione. Nei secondi vivono i due rappresentanti dell’agenzia, sempre sacrificati dentro quadri contornati da ciò che l’uomo ha inventato per loro: computer, automobili, finestrini, telefoni. In quei quadri i due personaggi si accomodano scomodi e insoddisfatti, svelando senza indugi il triste compromesso delle proprie esistenze: quel lavoro non lo vorrebbero davvero, smarriti dentro a una vita non appagante e in attesa di un cambiamento.
Il cambiamento non è il desiderio del villaggio, ma si sa, è inevitabile. E quindi, Evil does not exist fa salire la sua tensione, insinuando minacce e pericoli nei segni visibili di un paesaggio già irreparabilmente contaminato. Lo fa, però, con musicalità e liturgia, accomodando il suo dramma dentro un impianto universale, gelido nel capitolare di fronte a un conflitto irrisolvibile e senza ritorno.
Il film di Hamaguchi è scarno, diretto, duro. Riluce nei suoi ambienti e si annebbia nei suoi temi, denunciando un tema attuale con mezzi semplici e quella ferocia di chi sa gridare forte, sussurrando piano.
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