“Good taste is the death of art” scriveva l’autore statunitense Truman Capote. Un’affermazione d’impatto, insolita, contro-intuitiva. Alla base, però, vi è però un’idea forte: quella per cui l’oggetto culturale che sconvolge, che scandalizza, che provoca è quello che rimane più impresso, poiché sfida chi ne fruisce e genera dibattito. Se vista in quest’ottica, dunque, l’opera di John Waters, considerato tra i padri del cinema indie americano, non può che essere definita una grande forma d’arte.
Basti vedere, per rendersi conto di ciò, una delle sue pellicole più celebri e rappresentative, Female Trouble, la quale a cinquant’anni dall’uscita risulta ancora capace di sconvolgere e di divertire come pochi altri film son riusciti a fare da allora. L’eccesso, il tabù e la controversia, elementi caratterizzanti della pellicola, sono per il regista originario di Baltimora elementi impiegati in tutta la sua opera per parlare delle brutture dell’America reaganiana e del dopoguerra all’interno di pellicole di grande impatto, capaci di divertire e di disgustare.
Il mondo al contrario di Dawn Davenport
Al centro del film Female Trouble vi è la parabola di Dawn Davenport – interpretata dalla musa di Waters, Divine – un’adolescente ribelle degli anni ’60 refrattaria al sistema di valori statunitensi, che decide di fuggire di casa dopo che i genitori non le hanno regalato a Natale il paio di cha-cha heels che aveva chiesto.
Dopo aver concepito una figlia, Taffy (Hilary Taylor da giovane, Mink Stole da ragazza), con uno sconosciuto durante la fuga, Dawn si dà a una vita dedita al crimine e alla sregolatezza, tra prostituzione e abusi su minori, tra un matrimonio fallito con un parrucchiere hippie e set fotografici di veri crimini, fino ad arrivare ad una strage in un nightclub dove lei stessa si stava esibendo.
La storia della protagonista di Female Trouble si presenta dunque come opposta ai valori del perbenismo borghese, fatta di sesso, crimine, e bruttura. Ma quella di Dawn Davenport è una vita conforme a ciò che la circonda: l’America che John Waters ritrae nel film è costruita per rovesciare il sistema di valori statunitensi degli anni ’60 e ’70: Female Trouble mostra una realtà in cui il crimine è normalizzato, in cui il brutto è bello, in cui la volgarità e la perversione sono la norma.
Un mondo, come direbbe qualcuno, al contrario, che solo nel finale verrà violentemente ristabilito: negli attimi finali di Female Trouble, la società civile entra di prepotenza nella vita di Dawn, arrestata dalla polizia e messa sotto processo, e infine condannata alla pena capitale.
La suburbia americana in Female Trouble secondo John Waters
Basta solo la sinossi di Female Trouble per rendersi conto che l’eccesso sia una delle cifre della pellicola: la provincia raccontata dal regista di Baltimora sembra essere solo fatta di sesso, di turpiloquio, di sfregi, di abusi, di mutilazioni, di omicidi. Attraverso questi eccessi, mai celati ma sempre inquadrati dalla camera di Waters, il regista ribalta l’immagine delle suburbs americane fatte di casette a schiera, colori pastello e famiglie felici.
È proprio in questa iconoclastia dell’immaginario della periferia americana e del reaganismo che l’eccesso e la provocazione trovano la loro ragion d’essere: la violenza e la volgarità con cui la periferia viene ritratta presentano un nuovo modo di vedere uno dei simboli della prosperità economica degli Stati Uniti del secondo Novecento, distruggendone dunque l’immagine positiva che fino a quel momento essa aveva sempre mantenuto.
L’operazione di Female Trouble, e di John Waters in generale, sembra avvicinarsi in questo senso all’immaginario di un altro grande regista contemporaneo, vale a dire David Lynch. Entrambi i registi, infatti, nati nel secondo dopoguerra e cresciuti tra gli anni ’50 e gli anni ’60 lontani, sviluppano nelle loro opere una reazione allo stile di vita proposto dai suburbs: lavori come Female Trouble, Pink Flamingos e La signora ammazzatutti per Waters, Eraserhead, Velluto blu e Twin Peaks per Lynch ben mostrano questa forte tematica nei loro immaginari artistici.
La modalità con cui si sviluppa questo tema, tuttavia, è radicalmente differente nei due autori: se l’onirismo e il surrealismo presente nelle opere di Lynch permettono di squarciare il velo di Maya e di rivelare i segreti oscuri che le facciate perbeniste della periferia nascondono, l’assenza di gusto del cinema di John Waters sbatte violentemente in faccia quelle stesse verità ai suoi spettatori nel modo più sconvolgente e ironico possibile. Ciò che, quindi, nel cinema di Lynch viene rivelato, nelle opere di Waters è assimilato come dato intrinseco: la periferia è per lui marcia per sua stessa conformazione e natura, anche se non viene usualmente presentata come tale.
Il camp come elemento estetico e politico
Il rifiuto del regista di Female Trouble per lo status quo degli Stati Uniti del periodo non passa solo attraverso i contenuti: anche la forma del suo cinema è un chiaro segnale di opposizione al sistema dominante. Il cinema di John Waters, infatti, è uno degli esempi più cristallini di estetica camp – quella che Susan Sontag nel suo luminare Notes on Camp definisce come “the love of the exaggerated, the ‘off’, of things-being-what-they-are-not”.
Il gusto per il kitsch, per l’esagerazione estetica traspare in tutto il film: nelle tappezzerie dalle fantasie colorate delle case dei personaggi, nei costumi eccentrici e sgargianti indossati dal cast, nella presenza stessa dell’iconica drag queen Divine nei panni della protagonista – presentata in Female Trouble come “la donna più bella del mondo”.
Assieme alla produzione di natura low budget – tipica del cinema indipendente degli anni ’70 e del primo cinema di Waters stesso, la deliberata scelta di questa forma estetica assume dei connotati di natura politica: è anche attraverso un’estetica eccessiva e “senza gusto”, insomma, che John Waters prende le distanze dalla cultura e dal sistema normati e dominanti. Non a caso il camp storicamente si presenta come ad appannaggio di comunità storicamente marginalizzate come quella queer.
Il rifiuto di forme produttive, estetiche e contenutistiche tipiche del linguaggio cinematografico hollywoodiano sancisce dunque una presa di posizione precisa per John Waters, decisamente critica verso i valori statunitensi, grottescamente irrisi e dissacrati attraverso la loro stessa negazione, attraverso la messinscena di ciò che l’America stessa nega di sé, vale a dire il mondo white trash da sempre al centro delle sue opere.
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