Nell’occhio cinematografico di Spike Lee ogni storia, immagine o icona si trasforma in immaginario nero. Così anche Highest 2 Lowest, il capolavoro di Akira Kurosawa (High and Low, Anatomia di un rapimento in italiano) riadattato e storpiato fin dal nome in un superlativo assoluto, prende nuove strade filmiche per identificarsi in nuove letture contemporanee, sempre attorno agli stessi dilemmi morali che trovano ora nuovi schieramenti di rappresentazione e rappresentanza con cui leggersi a ritmo di bpm, per fare, ancora e sempre, anche con la musica, la cosa giusta.
Highest 2 Lowest, già disponibile in streaming su AppleTV, è stato presentato Fuori Concorso al 43° Torino Film Festival alla presenza in sala dello stesso regista Spike Lee, che nell’occasione del festival ha ricevuto il Premio Stella della Mole.
Highest 2 Lowest, improvvisare su Kurosawa
Un abile scopritore di talenti musicali e magnate dell’industria discografica americana, David King (il fidato Denzel Washington che incarna da manuale il nome del suo personaggio), è alla conquista del suo ambiente culturale ed economico, quando viene improvvisamente ricattato da una voce al telefono: è stato rapito suo figlio, si chiede un riscatto per liberarlo. Solo che per errore il figlio è quello del suo autista, suo fedele amico (Jeffrey Wright), e allora David King deve scegliere chi salvare: il suo impero in ripresa finanziaria o l’erede di un suo alleato.

La premessa narrativa di Highest 2 Lowest è essenzialmente la stessa dell’originale High and Low (e del romanzo di Ed McBain da cui a sua volta è tratto). Ma in Kurosawa permaneva sostanzialmente la geografia di un sistema capitalistico e di classe dell’epoca postbellica, di un saliscendi morale e sociale virato al procedurale in cui scegliere chi sacrificare tra i tanti blocchi visivi di personaggi (il capitale spropositato da moltiplicare o l’innocente figlio di un servile dipendente di basso rango).
In Highest 2 Lowest è invece di nuovo la fratellanza nera a innescare il resto, sull’onda tradita del sogno di Martin Luther King su cui costruire ancora volta una lotta interna, una giustizia parallela e orizzontale che in un beffardo gioco della sorte mina lo stesso senso di appartenenza. David King e il rapper di strada Yung Felon (A$AP Rocky): due filosofie che nella musica black si ritrovano ad affrontarsi in uno storico conflitto di cultura e generazioni (com’è anche quella del figlio di King che gli mette in playlist consigli da non perdere e raccomandare ai piani alti).
Highest 2 Lowest, ascoltare le ferite musicali
Una rap battle senza base, oltre i click e il denaro, oltre l’eleganza e la rabbia, oltre i social e l’olimpo della finanza, per imparare finalmente ad ascoltare da dentro le proprie reciproche ferite identitarie. Se in Kurosawa erano le vette dei grandi marchi di calzature femminili a governare il mondo, in Highest 2 Lowest sono i dischi campioni di ascolti online («L’attenzione è la moneta più importante oggi»).
Così da quell’unico dettaglio a colori in un intero film in bianco e nero, di un fumo rosa che nell’originale giapponese permetteva di identificare dalla distanza il rapitore, si passa all’orecchio assoluto di King che in Highest 2 Lowest riconosce, per suoni invece che per immagini, solo con le sue Beats dorate, la voce musicata del ricattatore-fan. È infatti quel suono, la musica battente a tema, a diventare in Highest 2 Lowest il vero motivo di orgoglio da rivendicare con fierezza, nonostante tutte le divisioni e le partizioni interne inevitabili perché previste dai nostri tempi attuali in cui svettare per «guidare i followers verso la terra promessa».

In quello scarto di secolo in cui è esplosa la contemporaneità hanno infatti preso ritmo nuove battaglie – la paura dell’IA, i media che amplificano ogni dettaglio fino a farne moneta di scambio (polizia inaffidabile compresa) – che Spike Lee accelera come sempre in modo divertito e divertente, sostanzialmente ottimista, rispetto a quel noir disilluso che per Kurosawa fu felice parentesi temporanea a influenza anche americana.
Rimane intatta in Highest 2 Lowest anche quella eterna casa-reggia paradisiaca (la parta alta del titolo originale giapponese Paradiso e Inferno) da cui sia Gondo che King dominano il potere, e che sempre uguale dal 1963 incombe dall’alto sulla città e le sue vedute, alimentando nell’odio la ragione di vivere.
Ma per Lee ovviamente la collina del successo (inquadrata in tutta la prima parte con maggior rigore e compostezza rispetto al suo solito virtuosismo) non potrà che affacciarsi sull’adorata e adorabile New York, che nella sua costante topografia di ideali vibranti e vissuti riesce a romanticizzare persino le aree più grigie e difficili, con quei toni sentimentali e indulgenti che hanno perdonato la sua metropoli persino nel post-11 settembre de La 25a ora.
Highest 2 Lowest e l’impero dei segni targato Spike Lee
Dopo aver già adattato nel 2013 l’Oldboy di Park Chan-wook con una «reinterpretazione» – parole sue – rivelatasi poi un disastro per critica e botteghino, Spike Lee con Highest 2 Lowest realizza di nuovo qualcosa di più di un semplice remake, cercando un sequel, un aggiornamento contemporaneo dal finale alternativo, forse una cover o un assolo jazz che mantiene inalterata la melodia filmica iniziale per poi traslarla con un virtuoso freestyle improvvisato.
E proprio dell’improvvisazione a volte Highest 2 Lowest mantiene l’imprecisione, la ripetizione ricorrente in cui esplicita quello che sta accadendo (filosofia da piattaforma?) in una struttura a sua volta spesso troppo squadrata e contenuta quando vuole mantenersi troppo fedele al testo di partenza. Nell’originale di Kurosawa, in un mondo travestito di profitto senza alcuna qualità, l’imprenditore protagonista Gondo credeva ancora nel valore simbolico dell’oggetto: «una donna porta il cappello, ma sono le scarpe a portare una donna» spiegava al consiglio di amministrazione a lui ostile, illustrando il suo progetto manifatturiero che guardava a moda e materiali resistenti per sopportare il cambiamento del tempo.
Spike Lee espande questo concetto, lo immerge, come per la gran parte della sua filmografia, nel suo universo cinematografico caustico e idiosincratico, dove ogni oggetto è simulacro di altro. Iconografie che si ripetono e si riprendono vicendevolmente, in un insieme di simboli che anche in Highest 2 Lowest appare sconfinato, ai limiti non solo dell’autocitazionismo ma della vera e propria mitomania, persino con una collezione di pezzi d’arte che appaiono su schermo nell’attico di King (da Basquiat a Kehinde Wiley) che, non a caso, appartengono a Lee stesso nella vita vera.

Mentre i personaggi scivolano in una caotica e barocca New York fatta di inseguimenti in metropolitana che toccano parate portoricane e un’esibizione live di Eddie Palmieri (eccolo lo stile vertiginoso di Spike Lee che conosciamo), si accumulano riferimenti testuali, letterali, subliminali o vagamente accennati, di cimeli, oggetti pop, comparse e apparizioni musicali e sportive (il solito disprezzo per i Boston Celtics).
Indicazioni appena inquadrate che sembrano quasi corrispondere all’impero dei segni di Roland Barthes immerso dal Giappone, come per High and Low, alla cultura nera, in una galleria di glorie mai dimenticate che appartengono anche e soprattutto all’attore e al suo regista che a quel fasto pungente hanno dato insieme, in split screen fin dai loro esordi, volto e scrittura.
I tanti occhi cinematografici di Spike Lee gravitano sempre in qualche modo attorno a quello stesso mondo rovente e provocatorio, di un riscatto, evidentemente nero, che supera tutte le possibili frammentazioni – di classe, di ideali, di religione e generazione. Highest 2 Lowest è forse in questo senso di quel mondo una via parallela e secondaria, non particolarmente frequentata, ma in cui si respira sempre l’aria calorosa di una città che si ama.
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