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Il Colibrì, la delicatezza che vince sul patetico

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5 minuti di lettura

È nelle sale dal 14 ottobre il film che ha aperto l’ultima edizione della Festa del Cinema di Roma: Il Colibrì. Diretto da Francesca Archibugi e tratto dall’omonimo romanzo di Sandro Veronesi (vincitore del Premio Strega 2020), il film vanta un cast di apprezzati nomi del cinema nostrano, come Laura Morante, Kasia Smutniak, Nanni Moretti, la giovane Benedetta Porcaroli. Ma, soprattutto, il meritatamente onnipresente Pierfrancesco Favino.

Lottare per restare fermi

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È proprio Favino a interpretare il protagonista de Il Colibrì: Marco Carrera. Oculista fiorentino dal sorriso rassicurante, l’uomo trascorre le proprie giornate tra il lavoro, la moglie Marina (Kasia Smutniak) e l’adorata figlia Adele (Benedetta Porcaroli).

Soprannominato “Colibrì” dalla madre Letizia (Laura Morante), in virtù del suo aspetto minuto e fragile (almeno fino a una sperimentale cura ormonale), a dare il senso più profondo a tale appellativo sarà Luisa (Bérénice Bejo), ragazza e poi donna alla quale lo lega un amore inestinguibile e mai consumato, e per questo eterno.

È lei a notare, infatti, che Marco, proprio come un colibrì, usa tutte le sue energie per cercare di rimanere fermo, lottando contro gli imprevisti e le sofferenze con cui la vita tenta di spostarlo. Pierfrancesco Favino presta il suo volto espressivo e la sua fisicità a un personaggio che non si arrabbia, non sbraita, non si scompone, non si dispera, perché “a lui la sua vita piace, nonostante tutto”.

Il Colibrì è un dramma che non (s)cade nel patetico

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Tale resistenza alle emozioni è esercitata non solo dal protagonista, ma anche dallo stesso film. La sceneggiatura di Francesca Archibugi, Laura Paolucci e Francesco Piccolo, e poi la messa in scena, non riescono – o forse non vogliono – provocare nello spettatore pianto, rabbia, compassione; insomma, quelle risposte emotive che ci si aspetterebbe di provare assistendo ad una storia disseminata di lutti, rimpianti, tradimenti e bugie.

Contribuisce a tale difficoltà di immedesimazione e coinvolgimento la struttura del racconto, che, proprio come nel libro di Sandro Veronesi – a cui Francesca Archibugi aderisce quasi completamente – si svolge a ritmo di frequenti flashback e flash forward. Ne derivano una narrazione densa e una visione quasi affannata, in cui continui crescendi tragici vengono spezzati al loro apice, concedendo spazio ad una lacrima liberatoria soltanto sul finale, punto di arrivo di un intenso climax che dura per l’ultima mezz’ora de Il Colibrì.

Interpreti credibili per un film delicato

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Nulla si può invece imputare agli interpreti, credibili ed equilibrati nell’incarnare personaggi che, grazie alle penne di Sandro Veronesi prima e degli sceneggiatori poi, sono vivi, densi e mai scontati. Meno credibile appare purtroppo il trucco prostetico, che, nel tentativo di invecchiare i personaggi, li appesantisce con ingombranti maschere che ostacolano la completa espressività dei volti. È per di più impossibile nascondere tale difetto in un film che è successione di primi piani e inquadrature per lo più statiche, di cui corpi, visi e sguardi riempiono ogni angolo.

Il Colibrì non soddisferà chi è alla ricerca di emozioni travolgenti. Piacerà, invece, a chi ha apprezzato, o persino amato, il romanzo di Sandro Veronesi – cui la pellicola si mantiene fedele – e a coloro che sono stufi dei drammoni all’italiana, in cui le scene si susseguono a colpi di pianti disperati, insulti sbraitati e piatti rotti. Il Colibrì, infatti, come l’uccellino e come il suo protagonista, è un film che fa della delicatezza la propria forza.


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Classe 1996. Laureata in Filologia Moderna, ama stare in compagnia degli altri e di se stessa. Adora il mare e le passeggiate senza meta. Si nutre principalmente di tisane, lunghe chiacchierate e pomeriggi al cinema.

3 Comments

  1. a mio avviso è la banalità che vince su tutto. Davvero un brutto film e la scena finale più che una lacrimuccia di commozione, scatena una lacrima di rabbia…Veronesi in primis dovrebbe portare avanti una doverosa battaglia sull’eutanasia e non propinarci queste storie in cui i miliardari fanno l’iniezione letale nel giardino di casa davanti al mare con gli amici intorno. E tutti gli altri che vivono in un bilocale di periferia appoggiandosi a servizi sociali inesistenti? Ma perchè i film italiani ci propinano solo storie di mafia o di ragazzi disadattati e come contrappeso i miliardari progressisti e paladini dei diritti civili dall’altra? Tutti gli altri a chi affidano la loro voce?

    • Bravissima Cristina, condivido appieno! Nel cinema italiano vince quasi sempre la banalità, c’è spazio solo per casi limite di personaggi e storie borderline, perlopiù ambientati al Sud, come se la criminalità organizzata e il disagio sociale fossero concentrati solo laggiù. E poi c’è l’alta borghesia pseudointellettualoide, di regola metropolitana, che si parla addosso e ci propina narrazioni melense e vuote, che non approdano mai a nulla. Gli interpreti risultano anche bravi, ma il soggetto e la sceneggiatura dei film appaiono insulsi e assai poco significativi. Saluti, Roberto

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