La Turchia torna su Netflix e lo fa con Il Festival dei Cantastorie, il racconto di un difficile rapporto padre figlio e il conseguente riavvicinamento di questi durante un viaggio che attraversa l’intero Paese. L’ultimo film del regista Özcan Alper è disponibile, in lingua originale, in streaming dal 2 settembre.
Il Festival “contro” la Mostra
2 settembre 2022, siamo già nel pieno della 79ª Mostra del Cinema di Venezia, ma nemmeno la biennale (per fortuna o meno) riesce a monopolizzare in toto il corso naturale del cinema, fatto anche di uscite e annunci. Ed ecco che sugli schermi smart arriva un festival doloroso e malinconico, fatto di dissidi, ritrovi e reminiscenze, un festival, in breve, pronto a contrapporsi alla Mostra. Un festival che corre in aiuto agli spettatori (e collaboratori/redattori) lontani dai nidi e dalle paludi veneziane.
Il Festival dei Cantastorie, opera del regista turco Özcan Alper, narra la storia di Yusuf (Kivanç Tatlitug), un avvocato trentanovenne, e del padre Heves Ali (Settar Tanrıögen), un musicista itinerante ormai in fin di vita. Dopo venticinque anni i destini dei due, un po’ forzatamente, si incrociano di nuovo: l’anziano e malato padre vuole raggiungere il festival dei bardi, un evento di musica tradizionale turca, e il figlio si propone di accompagnarlo. I lunghi giorni di viaggio saranno l’occasione per i due di riavvicinarsi, tra ricordi dolorosi e momenti struggenti, in una peregrinazione che riserva loro un finale tutt’altro che felice.
Ampliando la visuale, e cambiando lente alla camera da presa, il film non presenta soltanto la classica e ormai consumata contrapposizione padre/figlio, qui c’è qualcosa di più grande. Infatti, durante tutto il corso del lungo (102 minuti totali) assistiamo anche allo scontro tra le due facce di un Paese così misterioso e contraddittorio come la Turchia.
Ne Il Festival dei Cantastorie è presente la Turchia antica (rappresentata dall’anziano genitore), fatta di villaggi, baffi e musica tradizionale, e quella moderna incarnata da Yusuf, ormai globalizzata in toto dopo aver insabbiato le proprie radici. E il rapporto difficile e silenziosamente violento instaurato tra padre e figlio è lo stesso che si è venuto a creare tra generazioni così distanti (anagraficamente e culturalmente parlando) nella repubblica di Erdoğan.
Tensione e distanza sono palpabili nel momento in cui, durante una delle soste del lungo viaggio, il figlio propone di scattare un selfie in compagnia dell’anziano genitore. Il gioco teso di sguardi e di incomprensioni, infatti, diventano la distanza che divide il dito dal telefono. E il dito è immobile, paralizzato, niente click. La distanza tra i due non si restringe.
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Tecnicismi
A livello tecnico il film è solido e merita. Buona la regia, ma soprattutto, ciò che salta all’occhio è l’ottima fotografia, il gioco tra luci a neon negli appartamenti moderni e l’illuminazione naturale per i luoghi rurali plasma l’immagine con un contrasto interessante.
Il Festival dei Cantastorie, soprattutto, ci dona un’immagine nuova e alternativa della Turchia, tra immensi spazi aperti e una natura insolita, che poche volte è stata ripresa sul grande schermo.
Per quanto riguarda la sceneggiatura, invece, lo scenario è buono ma il film stenta a partire; e forse non lo fa mai. Il risultato è un road movie insolito, un “dramma su strada” mascherato, con una facciata non ben definita.
Il Festival dei Cantastorie, ovvero una Cronaca Familiare in chiave “belikwas”
Il film di Alper, tratto dell’omonimo romanzo dello scrittore Kemal Varol, è a tutti gli effetti una cronaca familiare, con richiami drammatici (e deprimenti) all’opera del fiorentino Vasco Pratolini (ripresa poi in immagini per il grande schermo da Valerio Zurlini nel ‘62, con protagonista l’indimenticabile coppia Mastroianni – Perrin). Certo i ruoli e i personaggi delle storie non coincidono e, se confrontiamo i due film, è il turco a sfigurare. E quindi, azzardando un collegamento tra cinema e letteratura, immagine e parola scritta, non ci resta altro che prendere dalla libreria Le tre del mattino (di Gianrico Carofiglio, edito da Einaudi nel 2017).
Anche in questa storia infatti, anche se in epoca, luogo e classe sociale differenti, tra le righe delle 165 pagine del romanzo, assistiamo ad un viaggio, ad un avvicinamento tra quel figlio e quel padre così distanti l’uno dall’altro. Viaggio che culmina in un finale simile ma tragico in egual modo rispetto al finale de Il Festival dei Cantastorie.
Soprattutto, Le tre del mattino ci viene in aiuto portando a galla un concetto chiave sul quale si snoda il romanzo stesso e il film in questione: ovvero il concetto del belikwas, l’uscita, cioè, dalla comfort-zone, un salto nel non ordinario, un’altra situazione che non siamo abituati a vedere, o che osserviamo con occhi diversi.
Significa qualcosa come: saltare all’improvviso in un’altra situazione e sentirsi sorpreso, cambiare il proprio punto di vista, vedere cose che credevamo di conoscere in modo diverso» – «Fino a due giorni fa io non conoscevo mio padre
Ed è proprio così anche per i protagonisti turchi. Fino a due giorni prima Yusuf non conosceva Heves Ali.
Alla fine la distanza si annulla, click e la luce del flash colpisce i volti di padre e figlio, uno accanto all’altro.
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