Il Tempo dei Giganti è un documentario diretto da Davide Barletti e Lorenzo Conte, prodotto da Dinamo Film e Fluid Produzioni, che racconta di una gravissima epidemia botanica e fitosanitaria che sta colpendo uno dei simboli del territorio pugliese: l’ulivo.
Il Tempo dei Giganti, un batterio sconosciuto
La Xylella Fastidiosa è un batterio che si è insinuato nel territorio del Salento a bordo di un container proveniente dalla Costa Rica, innescando gradualmente al suo arrivo una serie di meccanismi che hanno scosso, fin dalle radici, molti elementi identitari del territorio e della popolazione di quell’area della Puglia.
Il batterio e la pandemia sono il punto di partenza da cui si diramano una serie di riflessioni che toccano diverse sfere: quella sociologica, ambientale, economica, politica, antropologica.
Il Tempo dei Giganti corre su due filoni narrativi paralleli: da una parte il ritorno di Giuseppe – la voce narrante – verso la Piana degli ulivi monumentali per ricongiungersi al padre; dall’altra la ricostruzione da parte di esperti botanici, giornalisti scientifici, epidemiologi e sociologi dell’epidemia che ha causato la devastazione di un’intera area e delle contromisure adottate dagli ulivicoltori locali nel disperato tentativo di salvare i loro ulivi millenari.
Dalle prime avvisaglie dell’epidemia e i primi timidi sforzi da parte dall’amministrazione regionale di isolare gli alberi già contagiati, passando per le proteste di chi non era disposto ad abbattere i propri ulivi ancora sani pur di impedire al batterio di propagarsi, è chiaro all’osservatore che, come dichiara nel film Chiara Paladini, «Quando sei vicino alle cose vedi bene i dettagli, però non vedi bene il contesto». L’amministrazione e la popolazione locale non hanno avuto la lungimiranza di adottare le misure drastiche necessarie ad arginare la pandemia, e il risultato è che il batterio è divenuto oggi quasi inarrestabile.
Come combatterlo?
Il film mostra anche forme di resilienza e possibili soluzioni: c’è chi, come Giovanni Melcarne, sta creando incroci di tipologie di ulivo che siano resistenti al batterio, chi ha tagliato ceppi sani per fare innesti preventivi di altre varietà, e chi ha reinventato il territorio cambiando le colture e dedicandosi non più agli ulivi ma ad altre specie botaniche. Il Tempo dei Giganti lascia quindi uno spiraglio di speranza ed esalta il coraggio e la forza di pionieri che hanno preso una tradizione che è stata tramandata per generazioni e hanno saputo trasformarla correndo molti rischi.
L’ulivo, un patriarca buono
Quello che colpisce maggiormente è che, dalle parole dei protagonisti del documentario, emerge una visione dell’ulivo chiaramente antropomorfizzante: l’ulivo è un compagno, un amico, un «patriarca», come viene definito da molti, una sorta di Matusalemme che ha protetto, con la sua ombra e refrigerio, e che ha fornito sostentamento nel corso dei secoli. Viene addirittura percepito e descritto come una figura mitologica, al punto che gli esperti e gli ulivicoltori si riferiscono agli ulivi con termini come “titani”, “giganti”.
Visivamente, questo rispetto dei diritti vegetali e questo timore reverenziale vengono tradotti in una serie di inquadrature suggestive: gli ulivi ormai secchi vengono ripresi dal loro interno cavo come fossero luoghi sacri, caverne dalle pareti intrecciate. La fotografia riflette un’architettura rigorosa e rispettosa e sono molte le riprese di questi maestosi ulivi – o di quello che di loro resta – dal basso.
Spesso a osservarli dal basso, pensierosi e preoccupati, sono gli ulivicoltori stessi, che si sono presi cura degli alberi fino alla loro morte, il cui pensiero viene riassunto dal padre di Giuseppe nella scena finale del film: «Gli alberi o si amano o si abbandonano, l’ulivo è mio amico e nel silenzio ci capiamo. Per me l’ulivo è l’infinito e mi dà il piacere di vivere. Non è possibile che un albero di 500 anni arrivi a distruggersi. Non esiste. Per me sarebbe come morire insieme a un albero».
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