In the Dusk è l’ultimo film di Sharunas Bartas, regista lituano, tra i massimi esponenti del cinema baltico. Thierry Frémaux, direttore generale a Cannes, l’ha indicato tra i titoli con il bollino del Festival 2020, mentre in Italia arriva in anteprima grazie alla nuova edizione del Trieste Film Festival.
Specialista dello Slow- cinema, assurto alle cronache negli anni ’90, Bartas ritorna in regia per un tema tanto vicino e sentito dalla popolazione lituana. Il film si svolge durante gli ultimi due anni della fase resistenziale e partigiana del paese, contro l’invasore russo. Resistenza vana, dato che il paese verrà sovietizzato, con uccisioni e deportazioni di massa.
«In the Dusk», con l’invasore russo sempre più vicino
Lituani, 1948. L’azione si concentra all’interno di una fattoria, dove si legano le drammatiche dinamiche famigliari con l’attività di un gruppo partigiano accampato nella foresta circostante. L’anziano proprietario terriero Pilauga (Arvydas Dapsys) vive con una moglie malata, totalmente distante dalla vita del marito e con il figlio adottivo Ute (Marius Povilas Elijas Martynenko), preso come punto focale del film. I protagonisti dovranno fare i conti con l’invasore russo sempre più vicino, e con le inevitabili conseguenze.
Dramma famigliare, dramma collettivo
In the Dusk è un film dai colori spenti, vitrei, freddi. I rari momenti di vivi colori sono, paradossalmente, la sera, grazie al calore della fiamma. La prima parte si svolge quasi completamente in interni, con una continua osmosi tra volti e parole e silenzi, con un tracciato che rende spesso difficile allo spettatore rimanere collegato al procedere della storia. Lentamente, in maniera sommersa e via via sempre più evidente, si accompagna l’avanzata russa, come una piccola fiammella che via via si accende per finire in un vasto incendio.
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Il dramma famigliare tra marito e moglie separati in casa, per colpe passate mai perdonate, si contrappone all’amore del patrigno per un figliolo bastardo preso a carico, e preso in cura. La stessa foresta, che circonda la casa, spoglia e inerte e solenne, fa da sfondo ideale per asfissie sentimentali che non riescono ad evolvere.
Il dramma collettivo, di partigiani assemblati in maniera casuale, ha fatto storcere il naso al popolo lituano, che sperava di ritrovare nel film sensazioni ed emozioni di patriottismo nazionale. Invece ritroviamo personaggi dubbi, creduloni, traditori e poco predisposti a resistere al nemico, una macchina inarrestabile.
«In the Dusk», una verità personale
In the Dusk gioca sulla dialettica tra verità e menzogna, in un continuo rovesciamento di piani. Dialettica che si manifesta nel rapporto tra padre e figlio, che passa dalla falsità del ruolo istituzionale (lui non è il vero padre), alla verità del cuore, del sentimento di vera cura con cui l’ha cresciuto.
Verità che nella resistenza partigiana sembra essere il valore portante, l’ideologia che permette a uomini e donne di arrischiarsi nella resistenza ad un nemico più forte. Ben presto essa si ribalta nella menzogna da parte di traditori, pronti a vendersi pur di guadagnare un posto al sole.
Verità dell’armata russa, che si presenta come la forza liberatrice, che porterà ad un’uguaglianza e nuova fratellanza in terra, mediante ridistribuzione di terra e ricchezza. Verità che però si smaschera con metodi di conquista fascisti, deportazioni, torture e uccisioni senza pietà.
«Ognuno ha la sua verità, ma penso che ce ne sia solo una» dice il proprietario Pliauga. Chissà se sia realmente così, se anche il cinema di Bartas è irradiazione di una verità personale, se il cinema sia una delle tante verità possibili. O se l’una, sola verità profetizzata è la finzione che essa ci sia.
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