Una casa piena di vita, gioia, figli. Una cella solitaria, priva di finestre sul mondo. Memorie, immagini contrastanti che rappresentano il mondo di Eunice in Io sono ancora qui. Il regista Walter Salles torna nelle sale con un altro film di stampo storico che porta comunque avanti una prospettiva piccola e intimista. Con la performance mozzafiato di Fernanda Torres (prima donna Brasiliana a vincere un Golden Globe, seconda nominata dopo sua madre) Io sono ancora qui è un film che espone il passato in tutte le sue fragilità, per farci riflettere su come ricordarlo e incorporarlo nel nostro presente.
Tra pagine di storia e un album di ricordi
Io sono ancora qui inizia seguendo la quotidianità della famiglia Paiva, non suggerendo neppure per un istante che si tratti di un film sui desaparecidos. Vediamo la gioventù ribelle dei figli di Eunice e suo marito Rubens, per niente rassegnati a vivere sotto una dittatura militare, quella che ha caratterizzato il Brasile dal 1964 al 1985. Vi è un qualcosa di spensieratamente libero nel modo in cui i ragazzi, nonostante le violenze subite dal regime, continuano ad ascoltare musica o girare in macchina ridendo e scherzando. Tuttavia, la famiglia Paiva capisce ben presto quali sono i veri pericoli del regime: un giorno Rubens sparisce, senza lasciar alcuna traccia.
Io sono ancora qui prende velocemente una piega drammatica: gli ambienti familiari, irradiati di vita, si spengono e diventano bui. Le grida di Eunice sono senza voce, non escono dalla cella (letterale e metaforica) in cui è rinchiusa. Secondo il governo, lei dovrebbe tornare alla sua vita normale, semplicemente dimenticare. Ma questa madre, guerriera, rappresentazione della mermoria storica brasiliana, non si arrende, e contro tutto e tutti sceglie di lottare.
La struttura del film è costruita meticolosamente: da un inizio placido e sereno, la narrazione si capovolge, svelando una realtà stravolta, una sorta di “sottosopra” emotivo. Nella terza parte poi seguiamo il percorso di Eunice verso la verità, un viaggio che durerà per tutta la sua vita. Fedele, lo spettatore la osserva con fiducia, sperando per una risoluzione positiva e per un futuro migliore. Per Eunice, per i suoi figli e per tutta la resistenza che non smetterà mai di tacere.
Io sono ancora qui, l’abilità di Salles nella narrazione alternata
Premiato a Venezia e candidato 3 Oscar, Io sono ancora qui è stato accolto con entusiasmo per la sua intensità emotiva e per il suo potente ritratto femminile. Tuttavia, questa lettura, per quanto valida, rischia di semplificare la complessità del film. Salles usa con sapienza ed etica le immagini dell’archivio contrapposte a fotografie e filmati girati in Super8 e, infine, alle riprese vere e proprie del film. La narrazione filmica non si limita al racconto familiare, bensì mette in scena un complesso esperimento cinematografico, un intreccio visivo che rivela il cuore dell’opera.
All’inizio di Io sono ancora qui, un militare rivolge una minaccia a Veronica (la sorella Paiva maggiore) mentre lei è in giro con i suoi amici: “Metti giù quella cinepresa, cazzo.” Fino a pochi secondi prima, lo schermo era infatti inondato dalla “pellicola” della telecamera, che continuerà ad apparire nel film. Quest’affermazione secca porta sicuramente a riflettere sull’uso politico del cinema (non a caso, il film è stato boicottato, senza successo, dal Brasile di Bolsonaro) ma anche sul modo in cui Salles sfrutta questo mezzo. Le foto che Eunice tiene nelle scatole, i video girati da Veronica: questi elementi rappresentano la prospettiva intima e familiare della famiglia Paiva.
A questo materiale analogico si aggiunge poi quello reale d’epoca, insieme a un altro livello di narrazione. Oggi il materiale d’archivio ci è accessibile, ma un tempo non lo era: in passato le informazioni venivano filtrate e oscurate, in televisione si vedeva solo ciò che il regime voleva mostrare. In questo senso il materiale d’archivio assume il significato della narrativa maestra della storia: documenti che hanno bisogno di un contesto o che nelle mani sbagliate rischiano di essere strumentalizzati. Al contrario, i video dei Paiva sono un materiale unico e irripetibile, che mostra la Storia di un paese vista dall’interno.
Attraverso i video e le foto della famiglia non solo empatizziamo con i personaggi di Io sono ancora qui, ma capiamo l’importanza che la narrativa individuale ha per Salles. Il militare intima a Veronica di abbassare la cinepresa perché registrare è un modo per raccontare la sua storia. Tante testimonianze individuali, in questo caso sulla dittatura brasiliana, si oppongono con forza all’idea della “Grande Storia,” quella che riduce tutto a causa ed effetto e che parla di grandi schemi. In Io sono ancora qui il racconto è quello dei singoli che hanno effettivamente agito nel loro piccolo, generando un mosaico di storie che si sommano tra di loro.
Salles restituisce così la narrazione al singolo essere umano. Ciò è anche dovuto alla gestione degli attori nel rappresentare persone pre-esistenti: non sono volti anonimi che subiscono le sofferenze e tacciono (a differenza del numero Para in Emilia Perez, dove i sofferenti cedono immediatamente lo spazio ai protagonisti), sono persone con cui empatizziamo grazie alla cura nella loro rappresentazione. Il film suggella questo legame nei titoli di coda, mostrando solo i nomi degli attori affianco a foto d’epoca dei Paiva. Il regista non li cancella per relegarli nell’oblio, ma perché il film ha già fatto il suo lavoro: dopo questo snodarsi di continue e appassionanti narrazioni i Paiva restano con noi come amici di vecchia data.
Il messaggio attuale e globale di Io sono ancora qui
Quando una reporter chiede ad Eunice “Non crede che lo Stato abbia problemi più urgenti che cercare di rimediare al suo passato?” lei risponde con un secco e deciso “No.” In questo dialogo è insito l’intero messaggio del film: Salles espone le ferite ancora aperte di una nazione, che non possono cicatrizzare se prima non vi è riconoscimento del trauma.
In un’analisi comparativa, Io sono ancora qui si allinea con Quo vadis, Aida? nell’audacia dell’esporre gli errori di una nazione e nella difficoltà del riconoscerli tempo dopo, il tutto attraverso un percorso narrativo che ruota attorno a due donne dalla straordinaria resilienza. Io sono ancora qui però ci stravolge con una forza narrativa sorprendente: attraverso le inquadrature finali risulta chiaro che il film non sia solo autoriflessivo e rivolto al passato, anzi, è determinato a stabilire un dialogo con il presente. Gli ultimi sguardi in macchina di Eunice ci invitano all’azione, l’ingiustizia non può prevalere se tutti insieme ci ribelliamo allo status quo.
Nel periodo storico in cui ci troviamo è necessario avere delle rappresentazioni mediatiche del genere. Non è un caso se negli ultimi mesi le sale e i siti streaming sono saturi di questo tipo di contenuto. Il kolossal d’autore The Brutalist mostra la patria della libertà come un luogo marcio fino al midollo, lontano dal sogno americano. M – Il figlio del secolo rivela un viscido grottesco che straborda dal ritratto satirico di Mussolini. Se il cinema è uno specchio dei nostri tempi, oggi più che mai siamo chiamati a riflettere sui tumulti che caratterizzano ogni nostra giornata.
Non bisogna dimenticare la colpevolezza del passato. Se gli errori creano ciò che siamo in quanto individui, allora i genocidi e le persecuzioni attuate da uno Stato nel passato formano l’identità nazionale di oggi. È importante rimanere uniti e affrontare con mentalità critica la realtà. La resistenza manifestata sullo schermo deve travolgere lo spettatore, che protestando e lottando per la verità potrà affermare con forza di non essersi arreso e di essere, insieme ad Eunice, ancora qui.
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