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Jia Zhangke

Jia Zhangke, un trittico per capire la Cina e i suoi complessi cambiamenti

Su MUBI arrivano gli ultimi tre film di uno dei registi cinesi più importanti del nuovo millennio

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9 minuti di lettura

Gli ultimi tre film di Jia Zhangke hanno in comune due aspetti: la presenza ipnotica e magnetica di Zhao Tao (musa e moglie del regista cinese) che con i suoi movimenti disegna e reinventa la figura femminile all’interno del cinema orientale e i luoghi dentro cui si muovono le storie raccontate, luoghi talmente spaccati e dilaniati da una dicotomia sociale martellante e il rapporto contraddittorio tra passato e futuro che sembrano fuori dal mondo, estranei alla realtà. Il fulcro attorno a cui ruota l’intero lavoro di Jia Zhangke non è altro che il cambiamento, la sua analisi, la sua osservazione imparziale ma precisa. La lente è puntata sugli infiniti, complessi substrati sociali e culturali che la Cina nasconde, quelli lontani dalle immense metropoli di Shangai o Pechino, quelli delle città minerarie, paesi sperduti che vengono cancellati da dighe e infrastrutture. 

Jia Zhangke

Con Il tocco del peccato, Al di là delle montagne I figli del Fiume Giallo – presentati e disponibili su MUBI come un trittico dal nome Il tempo trasformerà le montagne – Jia Zhangke ha conseguito una maturazione registica e stilistica diversa, così da non ripetere quello che aveva egregiamente costruito in film come Xiao Wu o Still Life (Leone d’oro a Venezia nel 2006). Zhangke raggiunge un altro livello di indagine: prima dividendo e frammentando la narrazione in piccole schegge, poi dilatando all’estremo l’analisi di una singola storia, giocando con i formati visivi, provando a portare lo storytelling in luoghi e spazi oltre i confini prestabiliti della Cina.

Il tocco del peccato, frammentazione e violenza

Jia Zhangke

Il tocco del peccatouscito nel 2013 e premiato a Cannes con il Prix du scénario (migliore sceneggiatura), è la prima e unica frammentazione narrativa di Jia Zhangke. Diviso in quattro storie che si sfiorano soltanto senza mai toccarsi realmente, il film esplora i movimenti di un uomo senza lavoro che cerca vendetta contro il capovillaggio che ha svenduto la miniera dove lavorava lui a un ricco industriale in cambio di mazzette; di un lavoratore migrante annoiato da una quotidianità sterile e che userà la sua arma da fuoco per rompere una staticità opprimente; di una giovane donna incastrata in un rapporto malato che esploderà in un atto di pura violenza per proteggere la sua vita; di un ragazzo che conosce l’amore nel luogo e nel momento sbagliato e che cadrà vittima di un mondo alienante e opprimente.

Il tocco del peccato è il film più violento della filmografia di Jia Zhangke, quello più radicale e che spinge verso un discorso lontano da un centro preciso, ma concentrato a mostrare prospettive diverse legate dal filo conduttore di una violenza variegata ed eterogenea. Film prospettico ma totalmente armonioso, punti di vista distanti che si legano per far emergere le profonde problematiche sociali di un paese sempre più diviso e frammentato.

Al di là delle montagne, alla ricerca di un’identità perduta

Jia Zhangke

Dopo soli due anni il regista torna con un film completamente diverso dal precedente. Al di là delle montagne è un classico dramma amoroso e relazionale che però riesce a trasformarsi in qualcosa che va oltre il cinema. Non solo per i titoli di testa che bucano lo schermo dopo quaranta minuti e il coraggio di provare a raccontare il futuro ma soprattutto per l’ambizione geniale di mostrare il concetto di cambiamento narrativamente con una storia che copre venticinque anni e visivamente attraverso l’uso di tre formati (1,33 – 1,85 – 2,35). 

Una progressione geometrica dal 4:3 al 16:9 che racconta l’evoluzione di un triangolo amoroso con al centro la solare insegnante Tao contesa tra il ricco Zhang e l’umile minatore Liang. Tao finirà per scegliere Zhang, forse per amore, forse perché costretta da un contesto sociale troppo opprimente, Liang poi abbandonerà la città per poi tornarci anni dopo da malato e per chiedere in prestito i soldi a una Tao ormai rimasta sola, disillusa e delusa da un matrimonio che ha solo dato alla luce un figlio chiamato Dollar che neanche può crescere e accudire. Figlio che poi ritroveremo adulto, immigrato in Australia che non conosce più il cinese ma sente la necessità di riconnettersi al ramo familiare della madre con cui non ha più nessun contatto e relazione. 

Al di là delle montagne è una profonda analisi sul concetto di identità, tassello dinamico e mai fermo all’interno di luoghi e spazi sempre più delimitati, dove il concetto di denaro e lingua pongono distanze e alzano muri. Jia Zhangke costruisce un complesso rapporto madre-figlio per far emergere l’incomunicabilità estrema tra passato e presente, due realtà in conflitto manchevoli della spinta vitale e umana a riabbracciarsi, a guardare al di là delle montagne.

I figli del Fiume Giallo, oltre il genere

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Anche I figli del Fiume Giallo, come il precedente Al di là delle montagne, gioca con i formati visivi ed è diviso in tre movimenti temporali precisi, ma qui è tutto più evanescente e sfumato perché ciò su cui si concentra Jia Zhangke è spaccare i generi cinematografici, abbattendone barriere e recinti. Se il primo terzo di film è un classico gangster movie orientale che segue la storia d’amore tra l’ex ballerina Qiao e il boss malavitoso Bin, dal momento in cui la donna sarà costretta a scontare cinque anni di carcere per salvare il suo amore la materia cinematografica indossa un altro vestito: si trasforma in un road movie solitario ed esistenziale dove una Zhao Tao padrona incontrastata dello schermo cercherà di ricucire un rapporto asimmetrico, senza equilibrio.

E nel farlo viaggerà per la stessa Cina che ha osservato in quasi ogni suo film, quella Cina costruita su promontori sperduti dove l’ambiente muta ma l’uomo resta immobile e che è sempre più consapevole di essere arrivata a un punto di non ritorno, senza più una speranza, come il microcosmo di Qiao alla vana ricerca di un qualcosa che neanche esiste.

I figli del Fiume Giallo è un film dalla maturazione estrema, formalmente perfetto e nel medesimo tempo umile e attento ad aver abbracciato quella modernità così tanto contraddittoria ma ormai impossibile da schivare, da guardare e osservare con un occhio arrivato al culmine di un’indagine sociologica e culturale fondamentale, che contiene al suo interno nove lungometraggi che il cambiamento lo affrontano, lo mostrano, lo curvano e lo plasmano per restituirlo in immagini e parole capaci di andare oltre il concetto di cinema.


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Il cinema e la letteratura sono gli unici fili su cui riesco a stare in equilibrio. I film di Malick, Wong Kar Wai, Jia Zhangke e Tarkovskij mi hanno lasciato dentro qualcosa che difficilmente riesco ad esprimere, Lost è la serie che mi ha cambiato la vita, il cinema orientale mi ha aperto gli occhi e mostrato l’esistenza di altre prospettive con cui interpretare la realtà. David Foster Wallace, Eco, Zafón, Cortázar e Dostoevskij mi hanno fatto capire come la scrittura sia il perfetto strumento per raccontare e trasmettere ciò che si ha dentro.

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