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La Belle Epoque, il fascino discreto della nostalgia

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Se questo fine settimana un film vi sorprenderà, quello sarà La Belle Epoque. La sfavillante commedia francese diretta da Nicolas Bedos, tanto amata a Cannes 2019 e certamente pronta a conquistare il botteghino di tutto il mondo, è infatti la godibile ed esilarante realizzazione di un’irresistibile idea. La ragione è presto riassunta dal quesito che funge da sottotitolo alla trama: «E se potessi rivivere il giorno più bello della tua vita?».

Il fascino esercitato da questa semplice domanda anticipa già la squisitezza del film che ne sviluppa la risposta, ma per fortuna, e in ciò risiede parte della sorpresa, non ne esaurisce l’incanto. Anzi, la storia scelta da Bedos per diventare il suo secondo lungometraggio riesce ad accostare intrattenimento e comicità a una sagace accusa all’impero fraudolento della nostalgia. L’impero sotto cui l’industria artistica, e sopratutto il Cinema, sembra voler sottostare con continue rivisitazioni e rielaborazioni di anni passati.

Come rivivere Il giorno più felice della propria vita

Cicerone in questo percorso di decostruzione del rimpianto è Victor (Daniel Auteuil), ciò che in termini tecnici chiameremmo laggard. Un anziano signore che rifiuta la tecnologia. E d’altronde è facile compatirlo, dato che nella sua vita tutto sembra essere andato male a causa della rivoluzione digitale. Persino il lavoro di fumettista in un giornale è finito nel momento in cui la rivista si è fatta digitale, perché ora «pubblicano stupidaggini ma non accettano fumetti» . Gli si oppone però la moglie, una splendida Fanny Ardant, tecnofila quasi alla nausea, che difatti caccia il marito per qualcuno di più giovane e vitale. Letteralmente per un modello nuovo. Al centro il figlio, stereotipato sino all’inverosimile nel quadro del millennial realizzato, pienamente al comando del presente tra start-up e piattaforme digitali. Quest’ultimo è il mezzo per il quale Victor entrerà in contatto con una curiosa azienda che si occupa di ricostruire, in set studiati nei minimi dettagli, i periodi storici o gli eventi richiesti dai suoi clienti. C’è chi torna al rinascimento, chi vuole conoscere Hitler; sogni e perversioni si realizzano in studi che trasformano in realtà ogni cosa grazie all’ausilio di un vero e proprio cinema vivente.

Attori che interpretano padri scomparsi a cui si vuole dire addio, palazzi riedificati secondo i ricordi dei clienti; tutto è possibile. E così anche viaggiare nel tempo sino al giorno più felice della propria vita. Capire esattamente quale sia non è però così semplice, ma Victor ha le idee chiare: 16 maggio 1974, «il giorno che conobbi mia moglie» .

È a questo punto che La Belle Epoque rivela di essere più della sua incisiva premessa. Perché portare lo spettatore sul set di questa farsa, sulla realizzazione di una perversa nostalgia, ne rivela totalmente l’imbroglio. L’idea efficace in tal senso è quella di raccontare la malinconia mostrandola come i dietro le quinte di un film, così da smascherarne l’artificiosità. Come a scoprire il trucco di una magia, La Belle Epoque si rapporta allo spettatore imbastendo un interessante sistema di svelamento, arrivando alla morale senza la retorica facilmente invocabile.

Chiave è la scena che vede Victor scappare dal set con i vestiti del 1974, e con questi addosso incontrare un Hipster. Per quanto di facile ironia, l’incontro è l’esplicazione del ridicolo dilagante che La Belle Epoque rimprovera. Tanta tristezza fa Victor che gira per la città vestito come quando aveva vent’anni, altrettanta ne fa il ventenne che ne copia ora lo stile. Poiché entrambi richiamano qualcosa che esiste solo nella loro mente.

La Belle Epoque

«La Belle Epoque» è un piacevole inganno

«La nostalgia è un genere che genera sempre più profitti», la nostalgia è un genere. Lo afferma un personaggio che Bedos pone giustamente in fuori campo, dimostrando come tale ovvietà sia un concetto ormai assodato e risaputo. Però è bene che lo ricordi, perché solo così La Belle Epoque, esattamente come Midnight in Paris di Woody Allen, passa da essere presa in giro di un sentimento a vera e propria parodia di un genere narrativo che investe l’industria artistica. Al contrario dello sfruttamento industriale di questo genere, La Belle Epoque ci ricorda il pericolo di trasformare i ricordi in Cinema, e in un cinema scadente. Perché non sempre il passato è una bella storia. E se lo è, facile sia una bugia.

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Quando ci si trova nella ricostruzione di quel 1974 si viene colti da un misto di disillusione e vergogna. Ed è sul far affiorare la seconda che Nicolas Bedos dimostra intelligenza e abilità nell’utilizzo delle immagini. Perché l’intera storia si rivela una trappola, e in parte un’accusa. Facile è infatti farsi sedurre dall’idea di rivivere il proprio giorno migliore, e complessissimo è non innamorarsi di quello scelto da Victor. Il 1974 appare a un primo sguardo il più accogliente dei momenti storici: perché le luci calde, il chiacchierio soffice di un bar e la bellezza di sfondo sono quanto di più attraente ci sia. E per convincerci di ciò Bedos ci immette nell’adeguata atmosfera ancor prima del film, con poster e trailer improntati proprio attorno questo clima. La rivelazione di quanto tutto ciò sia falso è così ancor più radicale, e mostra in maniera incisiva quanto il vero prodotto della nostalgia sia un’arte in carta pesta; un’arte che crolla a pezzi. La rivelazione è tanto coinvolgente per quanto riguarda l’intrattenimento del film, quanto dirompente nella messa in accusa dello spettatore. Colpevole di farsi raggirare e sedurre da riproduzioni di tempi passati, sempre rivisti e puliti di ogni problema. Quel bisogno di passato che soppianta il presente con il ritorno incessante di saghe cinematografiche di quarant’anni fa, spesso riproposte dagli stessi attori che ne conducevano gli eventi, truccati (da Stallone, a Schwarzenegger, fino a Ford) o digitalizzati per l’occasione, ma comunque di decadente e fraudolenta carta pesta.

La Belle Epoque

«La Belle Epoque», la ricetta perfetta

L’aspetto comico è di certo la cornice in cui Bedos inquadra il suo film. E d’altronde è l’unico modo che ha per evitare che La Belle Epoque diventi il malinconico dramma di un anziano rimasto solo coi suoi ricordi. Il valore necessario dell’ironia spiega il suo scadere a volte nel convenzionale. Con battute semplici e prevedibili, che richiamano risate quasi obbligate. Non un problema in realtà, anzi. Il carattere di leggerezza de La Belle Epoque è proprio ciò che ne aiuterà la diffusione.

Nicolas Bedos è riuscito infatti nel miracolo, con un film che unisce cast stellare e sceneggiatura in una struttura narrativa irresistibile. Un po’ come l’italiano Perfetti Sconosciuti, di Paolo Genovese, anche La Belle Epoque sembra di conseguenza guardare con furbizia al mercato estero. Il film è appunto una ricetta facilmente ripetibile: il tema che sfiora la contemporaneità, il cast di stars di qualche decennio fa (perché la nostalgia è deprecabile solo finché non fa botteghino) e l’infinita possibilità comica. Così gli americani sembrano aver già messo in programma il proprio remake, e preparatevi ad una replicazione quasi mondiale.

La Belle Epoque

Ciò che però potrebbe far scadere il film nel commerciale è invece un’ottima notizia per l’industria. Le buone idee sono infatti l’unica arma rimasta al cinema per smuovere lo spettatore più pigro, molto più che la tecnologia. Per ogni Gemini Man i cui incassi lasciano interdetti i produttori (come se bastasse girare un film in super3D e 120fps per far cassetta), c’è un La Belle Epoque che invita lo spettatore ad entrare in sala con la semplice forza della propria trama. E in questo caso vale davvero la pena di cedere a questa forza d’attrazione per scoprire che cela molto di più. Sempre però che si sia disposti a mettere in dubbio la propria nostalgica devozione al passato.

Studente di Media e Giornalismo presso La Sapienza. Innamorato del Cinema, di Bologna (ma sto provando a dare il cuore anche a Roma)e di qualunque cosa ben narrata. Infiammato da passioni passeggere e idee irrealizzabili. Mai passatista, ma sempre malinconico al pensiero di Venezia75. Perché il primo Festival non si scorda mai.