Dopo il suo strabiliante esordio a Venezia nel 2015 sapevamo che Lorenzo Vigas sarebbe stato da tenere d’occhio anche quest’anno. Il regista venezuelano porta in concorso alla 78esima Mostra Internazionale del Cinema La caja, terza e ultima produzione di una trilogia che indaga a paternità. La breve serie cinematografica era iniziata con un cortometraggio, Los elefantes nunca olvidan, ed è proseguita con il primo lungometraggio di Vigas, Desde allà, che si era aggiudicato il Leone D’Oro alla 72esima edizione del Festival.
Di cosa parla La caja
Tra i paesaggi desertici e sconfinati del nord del Messico vaga da solo un giovane ragazzo, Hatzin (Hatzin Oscar Navarrete). L’adolescente, con lo sguardo troppo adulto per la sua età, attraversa il Paese per andare a recuperare i resti del padre desaparecido trovati in una fossa comune. Una volta in possesso della compatta cassa di metallo si imbatte però in uno sconosciuto dalle sembianze famigliari, Mario (Hernán Mendoza). Mille dubbi iniziano ad affollare la mente di Hatzin, che decide di insinuarsi nella vita dello sconosciuto, sempre più convinto che possa trattarsi di suo padre. Inizia così un viaggio alla scoperta della paternità al confine tra verità e bugia. Ma è Mario il vero padre di Hatzin? Oppure il ragazzo desidera così tanto un padre da ingannarsi da solo?
A fare da sfondo la disperata situazione dei lavoratori delle “maquila“, stabilimenti industriali delocalizzati in Messico che spesso si occupano di assemblaggio di prodotti per l’esportazione, approfittando delle esenzioni fiscali. All’interno di queste fabbriche i diritti umani vengono calpestati quotidianamente e gli operai sono costretti a lavorarvi con turni massacranti, paghe risicate e un clima di grande competizione interna.
La caja: paternità e paternalismo
Vigas, dando vita a quest’opera, ha voluto studiare a fondo la paternità nel contesto di una nazione come il Messico che da sempre necessita di padri. Il regista mette al centro della sua trilogia l’assenza della figura paterna, fenomeno tristemente comune nel Paese sudamericano. Tanti bambini vengono cresciuti da madri sole e i padri, quando ci sono, rappresentano una figura lontana e remota. Hatzin desidera a tutti i costi riavere suo padre e non esita a scendere a compromessi per riaverlo. Scoprirà però ben presto però che non basta procreare per essere un genitore e che, a volte, è meglio non avere un padre piuttosto che averne uno pessimo.
Ciò che La caja vuole dirci è che questo fenomeno di abbandono non può che portare con sé gravi conseguenze, innanzi tutto sentimentali, ma soprattutto sociali. Non è un caso, sostiene lo stesso Vigas, che in Sudamerica abbiano tristemente avuto successo rigidi regimi dittatoriali. La figura di un capo dispotico è spesso inconsapevolmente vista come un palliativo alla mancanza di una personalità forte di un genitore autoritario. Il dramma sulla paternità che percorre La caja non si rivolge quindi solo ai bambini trascurati, volontariamente o involontariamente, dai loro genitori, ma anche ai figli di una nazione orfana di un governo onesto e legittimo.
Perché guardare La caja
Il regista venezuelano con estrema suggestione alterna campi lunghi in cui prevale la desolazione e l’aridità del Messico dello sfruttamento neoliberista e del narcotraffico a primi piani del malinconico e distaccato Hatzin. Severa come i paesaggi anche l’emotività, quasi assente. Questa assenza, voluta fortemente da Vigas, blocca l’immedesimazione che solitamente ci permette di commuoverci e far sgorgare le lacrime che in questo caso, invece, non arrivano. La caja trasmette quella sterilità frutto di una moralità mancata, di valori non tramandati, di una tradizione legata alla brutalità.
In un anno in cui la Mostra si è riempita di storie di donne e madri, Vigas sembra portare un’opera contro corrente. Nonostante il buon rapporto affettivo del regista con il papà, il suo lavoro si è incentrato sul dipingere il prototipo di padre sudamericano. La crisi identitaria che gli adolescenti sono costretti a valicare coincide ad una molto più prepotente crisi collettiva dovuta alla mancanza di rapporti affettivi, al disorientamento morale e, non ultima, alla violenza del fenomeno dei desaparecidos e delle fosse comuni. Se non è possibile conoscere, fare pace e persino seppellire il passato come si fa a trovare la forza per trovare la propria strada e iniziare a viaggiare verso il futuro?
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